In Italia chi sogna di creare una startup può scegliere diversi percorsi. Può partecipare alle call degli incubatori privati, accedere ai programmi di accelerazione lanciati da molte aziende, oppure scegliere la strada che passa per l’università. Nel nostro Paese, secondo i dati di PniCube, l’associazione degli incubatori universitari (che istituisce ogni anno il Premio nazionale per l’innovazione), sono circa 40 gli atenei che si sono dotati di un incubatore, o che hanno fatto rete con altre istituzioni per poter fornire ai propri studenti e dottorandi servizi di questo tipo. In generale, secondo i dati raccolti da PniCube, si tratta di incubatori che generano imprese di qualità più elevata e di maggior successo rispetto a quelle incubate altrove. «Le startup che partecipano al Premio nazionale per l’innovazione hanno un fatturato medio di 260mila euro. Quasi il 25% in più di quello delle imprese innovative presenti nel registro del ministero dello Sviluppo economico» rivela il professore Giovanni Perrone, presidente di PniCube, che prosegue: «Inoltre le startup nate in ambito universitario con finanziamenti superiori al milione di euro sarebbero il 5%, contro il 2% registrato dal Mise». Un vantaggio competitivo dovuto al fatto che queste imprese innovative, provenendo dal mondo della ricerca, hanno già una base tecnologica e innovativa molto solida. Inoltre, come spiega Perrone, «gli incubatori universitari hanno dei meccanismi di filtro piuttosto rigidi, soprattutto dal punto di vista del business plan».
A fare davvero la differenza, secondo il presidente di PniCube, è il fatto che le startup universitarie «possono avere una reale incidenza sull’economia italiana perché non si occupano solo di digitale». La maggior parte di queste imprese opera, infatti, in settori portanti per l’economia nazionale come quello industriale, l’alimentare, il lifescience e nelle cosiddette tecnologie verdi. «Tutti ambiti che richiedono però laboratori e attrezzature che solo un’università può mettere a disposizione» precisa il docente. Si tratta di percorsi da cui sono nate storie di successo come quella di Electro Power System, startup dei Politecnici di Milano e Torino, quotata sul mercato francese, che ha ottenuto 6,5 milioni di euro di finanziamenti. O quella della palermitana Mosaicoon che nel 2016 ha chiuso un round da 8 milioni di euro: il più elevato realizzato in Italia negli ultimi anni.
«All’inizio gli incubatori più attivi erano quelli delle università del Piemonte e della Lombardia perché questi atenei hanno iniziato a occuparsi prima degli altri del tema startup. Nell’ultima edizione del Pni, però, regioni come Campania, Sicilia e Calabria, hanno presentato un numero di idee simile a quello delle regioni del nord» spiega il professore. Oltre a incubatori storici come il Polihub di Milano e I3P (quello del Politecnico di Torino), in quasi tutte le regioni italiane sono nate, infatti, molte altre realtà. E buona parte di esse, oltre a diversi spin-off universitari, ha lanciato sul mercato anche varie startup. Altri atenei, invece, più che un vero incubatore, hanno scelto di avviare dei programmi di supporto all’imprenditorialità (all’interno dei propri dipartimenti per l’innovazione e il trasferimento tecnologico) o di creare corsi ed eventi dedicati agli startupper. Tuttavia, per la maggior parte di questi incubatori, mancano i dati sul numero di startup create, sul loro valore economico, sui finanziamenti ricevuti e anche sul tasso di fallimento. Tutte informazioni che sarebbero invece utili per capire se le università sono davvero la fucina delle migliori startup. «Ci sarebbe bisogno di un osservatorio che raccolga le informazioni su startup incubate, numero di exit e di fallimenti per ogni incubatore universitario. Si tratta infatti di dati fondamentali per elaborare nuove strategie, e per non perdere traccia dei successi raggiunti finora» conclude Perone.
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