A pensare alla popolazione italiana in termini di luoghi e colori, con l’arancione scuro da un lato a indicare comuni che si spopolano e blu scuro il contrario, in una mappa troviamo grandi macchie – dunque zone da tenere sott’occhio – insieme a spostamenti poco evidenti, ma non per forza meno importanti.
Già a prima vista emergono ampie aree in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Lazio dove secondo gli ultimi numeri dell’Istat i residenti dal 2012 al 2017 sono aumentati. Nell’altro verso vanno, ordinandole da nord a sud, aree presenti in Friuli Venezia Giulia, Liguria, insieme a un’ampia fascia che corre lungo tutto l’appennino e giù fino alla Basilicata. Tendono verso l’arancione, con qualche eccezione costiera, anche diverse parti di Sicilia e Sardegna.
Sommando tutto il risultato netto è maggiore di zero, un azzurro pallido, e in effetti in cinque anni i residenti in Italia risultano essere un filo sotto gli 1,2 milioni in più – per un totale di circa 60,6 milioni di persone. I dati demografici resi disponibili da Istat non contengono informazioni recenti relative alla provincia di Bolzano, che quindi è stata esclusa dall’analisi dettagliata comune per comune.
Guardare solo alla geografia può però confondere oltre che aiutare, e per due motivi. Il primo è che una mappa ci consente di capire a colpo d’occhio dove il vento è cambiato e in quale direzione, ma un conto è se la popolazione aumenta nella capitale, che di abitanti ne ha milioni, un conto è se parliamo invece di qualche piccolo comune di provincia.
Un altro modo in cui una mappa può ingannarci è che non sempre la geografia di un comune ci fa capire quant’è importante davvero. Roma è una chiara eccezione, perché in totale occupa una superficie molto ampia, ma se invece cerchiamo altre grandi città come Milano, Torino o Napoli dobbiamo faticare di più, perché hanno un’estensione minore: quindi a guardarle al volo in una mappa rischiano di pesare assai meno della realtà.
Esistono però soluzioni diverse per evidenziare chi conta di più e chi meno: per esempio rappresentando le città non in base a dove si trovano, ma a quanti residenti ospitano. In questo modo emerge il vero cambiamento degli ultimi cinque anni, ovvero l’abbandono dei comuni piccolissimi in favore di quelli maggiori.
In qualche misura, l’aumento della popolazione sembra proporzionale proprio alla dimensione delle comunità: da Roma a Milano, fino a Torino, Napoli, Palermo e Bari, tutti i grandi centri crescono – e più sono grandi più crescono. Fra i principali l’unica eccezione sembra essere Genova, dove invece troviamo un lieve calo.
La relazione pare vera anche all’opposto, e in effetti spulciando tra i dati troviamo che praticamente tutta la variazione negativa nella popolazione arriva dai comuni mini, con meno di 4mila abitanti. In quelli minuscoli che non arrivano neppure a mille abitanti c’è stato il calo maggiore, con una perdita media che per poco non raggiunge il 4,5%. Salendo un po’ di categoria il calo diventa più fievole, per poi arrivare appunto alle comunità di almeno 4mila persone che in media hanno la stessa grandezza del 2012.
Individualmente si tratta di piccoli numeri, è vero, ma l’Italia è un paese dalla geografia frastagliata – che di comuni ne contiene circa 8mila, di cui molti piccolissimi, tanto che a sommare proprio quelli con meno di 4mila residenti arriviamo comunque a contarne diverse migliaia in tutto.
Allo stesso tempo la relazione fra dimensione della città e crescita demografica negli ultimi anni non è sempre così semplice, e alla regola risulta anche qualche eccezione. Troviamo le tre principali in altrettanti comuni di medie dimensioni come Catania, Firenze e Bologna, che in cinque anni hanno visto crescere i propri residenti del 6-7% circa.
Un’altra possibilità che viene fuori, analizzando la distribuzione dei comuni che si spopolano, è che chi vi abitava si sia spostato non per forza nelle grandi città ma in località vicine seppure comunque di ampiezza maggiore: anche i 113 comuni da 50 a 150mila abitanti hanno infatti registrato una crescita media del 3% o poco più. In assenza dei flussi esatti è difficile dire con sicurezza se la destinazione di chi ha lasciato il proprio luogo di nascita è stata soprattutto quest’ultima invece che, per esempio, Roma o Milano: certamente – scoperta dell’acqua fresca – si tratta di una qualche combinazione delle due cose.
Questo nel complesso è il risultato di due foto scattate nel 2012 e 2017, sovrapposte, e da cui sono state estratte le differenze. Ma in realtà i poco meno di 1,2 milioni di residenti totali in più si trovano a metà di un percorso a doppia direzione: se in tutti gli anni precedenti Istat ha registrato una crescita, a partire dal 2016 – e poi ancora nel 2017 – troviamo invece un calo.
Oltre agli spostamenti interni, a far andare i residenti su o giù nel tempo ci sono almeno altri quattro fattori: natalità e mortalità nonché migrazioni da o per l’estero. In primo luogo a un continuo calo della natalità degli italiani “nativi”, che prosegue ormai da tempo, corrisponde un flusso crescente di nuove nascite da famiglie di immigrati residenti. Questi ultimi tendono, di solito, ad avere un maggior numero di bambini rispetto appunti ai “nativi”. Poiché al nord di immigrati ce ne sono molti più che al sud, almeno nel medio termine dal punto di vista della crescita demografica si tratta di un’area avvantaggiata.
Dal punto di vista della mortalità non ci sono sorprese particolari, con un trend in aumento ormai più che secolare per cui all’ultimo conteggio la speranza di vita alla nascita ha raggiunto una media di 82,8 anni. Questo però non vuol dire che sia uguale ovunque, e anzi fra Trentino Alto Adige (dove si vive più a lungo) e Campania (l’estremo opposto) passa una differenza media di 2,7 anni. Anche questo, pur se magari a occhio non si vede perché lentissimo, è un fattore che si accumula nel tempo. Come che sia, descrivere gli ampissimi progressi in quest’ambito non è facile ma aiuta forse ricordare, come fa l’Istat, che “rispetto a 40 anni fa la probabilità di morire nel primo anno di vita si è abbattuta di oltre sette volte, mentre quella di morire a 65 anni di età si è più che dimezzata”.
A contare sono anche i gruppi di chi arriva dall’estero e di chi invece lascia l’Italia: secondo gli ultimi numeri è almeno dal 2007 che il numero di immigrati in arrivo – intesi come iscritti all’anagrafe italiana dall’estero – non fa che calare, e solo nel 2016 è stato registrato un aumento. Esattamente all’opposto è andata l’emigrazione dall’Italia, che nell’ultimo decennio non ha fatto che crescere e all’ultima rilevazione ha contato 157mila persone.
Discorso diverso va fatto per rifugiati e richiedenti asilo, che hanno seguito una traiettoria del tutto diversa. A partire dal 2014 ha avuto inizio un numero crescente e molto fuori dal normale di sbarchi sulle nostre coste, che a oggi ancora non si è concluso. Una parte di queste persone ha fatto richiesta per ricevere asilo politico mentre un’altra ha lasciato l’Italia (in maniera legale o illegale) per raggiungere familiari conoscenti nel resto del continente, e in particolare nell’Europa del nord.
È bene ricordare anche che gli anni immediatamente successivi al censimento – la quindicesima edizione c’è stata nel 2011 – sono un periodo un po’ complicato per le statistiche, e che i numeri tendono a essere più ballerini perché vengono integrati i residenti “mancati” dall’anagrafe negli anni precedenti. Questi potenziali errori, s’intende, diventano ancora più importanti nei comuni piccoli e piccolissimi, dove anche piccole variazioni possono alla fine sembrare enormi se rapportate una popolazione minima.