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Smartworking, work-holism e malattie occupazionali: come si misurano i lavoratori?

 

 

 

In questi giorni la Fondazione Studi Consulenti sul Lavoro ha pubblicato un documento  dal titolo Gli indici “rivelatori” dello sfruttamento del lavoratore nella giurisprudenza di legittimità, che esamina le sentenze della Corte di Cassazione, emesse dal 2015 a oggi sullo sfruttamento dei lavoratore, estrapolando alcuni indici per misurare con più precisione questa condizione.

In sintesi è da ravvisare un’ipotesi di sfruttamento quando sussistono una o più delle seguenti condizioni:

 

  • reiterate retribuzioni palesemente difformi dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale;
  • una reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
  • accertate violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
  • una sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti”.

 

Il documento precisa che in queste diciture sono incluse come sfruttamento la mancata previsione di ferie, condizioni di trasporto non igieniche o che costringono il lavoratore a viaggiare in piedi o seduto a terra; l’attività lavorativa prestata sotto minaccia di licenziamento e la mancata autonomia di  recarsi autonomamente all’occorrenza, presso i servizi igienici, dovendo utilizzare, previa autorizzazione del datore di lavoro, una scheda magnetica per essere monitorato. La definizione qui è tratta da una sentenza che riguardava appunto dei braccianti, ma l’obbligo di recarsi ai servizi solo in alcuni precisi e contati momenti della giornata, spesso cadenzati da una campanella, sussiste regolarmente ancora in grossa parte del mondo operaio all’interno della fabbrica. E ancora norma per molti operai in contesti aziendali perfettamente regolari non potersi fisicamente alzare dalla postazione di lavoro se non in momenti prestabiliti.

 

A gennaio 2020 l’Inail ha pubblicato i nuovi dati sugli infortuni sul lavoro e sulle malattie professionali, che evidenziano un +2,9% nelle denunce rispetto al 2018. Le patologie denunciate sono aumentate solo nella gestione Industria e servizi (+4,1%). La prima categoria per numero di denunce è rappresentata dalle patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo (38.492 casi), seguita da quelle del sistema nervoso (6.678, con una prevalenza della sindrome del tunnel carpale) e dell’orecchio (4.311). Insieme alle malattie del sistema respiratorio e ai tumori rappresentano quasi il 90% del totale dei casi denunciati all’Inail.

 

La pandemia di COVID-19 e il cosiddetto “smartworking” ha sparigliato un po’ le carte, aggiungendo nuove variabili alla definizione di sfruttamento del lavoratore. In realtà non è vero che lo smartworking è emerso improvvisamente con il COVID19. È del 2017 la prima legge italiana che regolamenta questa modalità di lavoro: Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato.

 

LOsservatorio Smart Working del Politecnico di Milano mostrava che già nel 2018 più della metà delle grandi imprese e l’8% delle PMI proponeva lo Smart Working, registrando un aumento del 20% rispetto all’anno precedente, anche se l’Italia era comunque al di sotto della media Europea  come percentuale di diffusione dello smartworking (dato Eurostat). Lo conferma anche l’indagine svolta durante il lockdown dalla Cgil Nazionale e dalla Fondazione Di Vittorio alla quale hanno partecipato 6.170 persone, il 18% dei rispondenti faceva smartworking già prima della pandemia.

 

Quello che abbiamo sperimentato durante la pandemia però non è stato smartworking. La legge del 2017 parla di “una modalità di lavoro senza vincoli spazio temporali ma organizzata per fasi, cicli e obiettivi. Nessun Telelavoro, nessuna rigidità soprattutto su luoghi della prestazione e orari”. Invece solo il 23% degli intervistati nell’indagine CGIL ha percepito un vero cambiamento rispetto al lavoro in azienda. Lo smartworking si traduce troppo spesso in work-holism, invadendo in modo totalizzante lo spazio della vita privata, e soprattutto si basa ancora fortemente sulla cultura del controllo. Il 56% dei rispondenti afferma che lavorando da casa si presta poca o nessuna attenzione al diritto alla disconnessione e al controllo a distanza.  Il 73% ha dichiarato che non è stata tutelata la propria privacy e il 54% che non sono state garantite le pause di lavoro. Ma soprattutto, le percentuali di rispondenti che hanno dichiarato di aver ricevuto supporto da parte dell’azienda, per esempio con un’adeguata formazione aziendale su come utilizzare strumenti o relazionarsi in modo nuovo con colleghi e superiori sono praticamente nulle.

 

Il 6 aprile 2020, nel bel mezzo del lockdown, la SDA Bocconi School of Management ha organizzato un evento dal titolo «Smart working: stiamo davvero lavorando agilmente?» (qui il webinar) che ha raccolto alcuni commenti di lavoratori: «Mi relaziono di frequente con il tipico manager vecchio stampo che vuole il controllo della persona». «Chi riesce ad apprezzare lo Smart Working e a trarne vantaggi, sia dal lato del manager sia da quello del lavoratore, capisce che la situazione migliore è quella basata sulla fiducia e la responsabilità professionale».