È stallo sul “Made in”, un dialogo tra sordi, a tratti surreale. Il Consiglio competitività, di fatto la riunione dei ministri del commercio dei 28 Paesi membri, ieri a Bruxelles, è stato la fotografia della spaccatura, apparentemente insanabile, che da mesi mostrano i governi degli Stati membri. Con una via di fuga dall’impasse, ufficiosamente, emersa dopo la riunione.
Ma andiamo con ordine. Sull’obbligo di etichettatura di origine per i prodotti non alimentari in circolazione nella Unione europea, resta, da un lato, il fronte a favore della tracciabilità dei beni, guidato dall’Italia e sostenuto da Francia, Croazia, Grecia, Spagna, Portogallo e, con un ripensamento degli ultimi giorni, anche Polonia. Mentre il fronte del no a qualunque obbligo di etichettatura resta graniticamente composto da Germania, Belgio, Gran Bretagna, Svezia, Olanda, Irlanda e Danimarca. Siccome il voto è a maggioranza qualificata (almeno il 55% dei membri del Consiglio, pari a 15 Paesi e ad almeno il 65% della popolazione europea) nessuno dei due fronti è in grado di prevalere per sbloccare il negoziato.
La trattativa sulla tracciabilità obbligatoria è ancora in fase di stallo. Da una parte la coalizione favorevole al “made in”, di cui fa parte l’Italia, vorrebbe maggiore tutela per i beni dei settori “abbigliamento”, “calzature”, “ceramica”, “oreficeria”, “legno e arredo” che insieme hanno un fatturato di 98,5 miliardi. Sul versante opposto, la fazione capeggiata dalla Germania non ritiene necessaria l’etichettatura di origine per queste categorie merceologiche.
Tratto da Il Sole 24 ORE del 29/05/2015, pagina 13