È spesso chiamata la “guerra fresca”. Divide Washington e Pechino, che sullo scacchiere dell’Estremo oriente hanno strategie militari e politiche decisamente confliggenti. Non esplode in un confronto diretto – anche se non necessariamente militare – solo perché i due governi e le economie che sostengono sono interdipendenti: una situazione che crea nuove occasioni di frizione – come insegna il caso di Eurolandia – ma anche il bisogno di non esasperare troppo le posizioni.
Le settimane precedenti l’incontro tra Barack Obama e il presidente cinese Xi Jinping hanno però alterato l’incerto equilibrio in cui si mantenevano, sul piano economico, le relazioni tra i due governi. Il gonfiarsi del sistema bancario ombra, i deflussi di capitali, le brusche flessioni della Borsa di Shanghai, le notizie sul calo delle esportazioni, il riallineamento dello yuan che ha fatto temere una rapida svalutazione, le misure espansive di politica monetaria “contraddette” da una riduzione delle riserve per sostenere il cambio che, di fatto, realizzano un quantitative tightening e non l’atteso e spesso auspicato quantitative easing sono episodi – ed errori politici – che toccano direttamente il cuore del complesso patto non scritto tra Pechino e Washington: l’acquisto di riserve in dollari, e quindi di titoli di Stato Usa da parte dei cinesi, gli investimenti e gli acquisti di beni prodotti nel paese asiatico da parte degli americani (e non solo).
Divergenze di opinioni sul Pil cinese. Per quest’anno il governo di Pechino ha assicurato un +7% ma secondo gli analisti sarebbe più verosimile una stima di crescita più bassa
Tratto da Il Sole 24 ORE del 25/09/2015, pagina 30