Le startup italiane sono un mondo in cui poche di loro prendono (quasi) tutti i soldi. E in cui solo pochissime (il 5 per cento) è partecipato da venture capital o private equity. Di contro, «si rileva la crescente presenza di società industriali tra i soci, ora nel 31 per cento delle startup», nota Carmelo Cennamo, docente dell’università Bocconi di Milano. È del suo gruppo di ricercatori lo studio, per ora inedito, che mette in luce per la prima volta questi dati e queste caratteristiche, molto particolari, del mercato italiano.
Il campione sono i bilanci 2014 delle 3.179 aziende registrate come “startup innovative” nel registro imprese. «Ad oggi i dati 2015 sono disponibili solo per 1.795 delle attuali 5 mila startup in registro», aggiunge Cennamo. Nel 2014, il totale dei finanziamenti raccolti (nell’anno) dalle startup nel campione è 149 milioni di euro, 93 milioni in capitale e 56 milioni in debito, secondo lo studio Bocconi.
Certo il valore 2015 sarà diverso, «ma quello che conta è il trend, che resta confermato», dice Cennamo. E cioè un elemento è che la maggior parte dei finanziamenti finisce in poche startup (nel 2014, dei 149 milioni, l’89 per cento è andato a un quarto di loro). Il 95 per cento di loro ha almeno un individuo tra i soci e solo il 5,1 per cento ha almeno un venture capital. Il 31 per cento delle startup ha un’altra società tra i soci.
Altri punti interessanti emergono se analizziamo queste startup di successo (finanziario): la quota detenuta dai venture capital è solo del 20.3 per cento in media, a fronte del 46.6 per cento in mano a società industriali.
Il 25 per cento delle startup che raccolgono più finanziamenti opera nel settore di attività manifatturiere, dato più alto della media del campione. Ha in media nove soci e due dipendenti, contro rispettivamente quattro e uno nel restante 75 per cento. Il 43 per cento ha ottenuto un utile nel 2014, ma in media il risultato netto è negativo: meno 23.420 euro. Le migliori performance sono delle startup che hanno un rapporto passività/attività tra lo zero e il 50 per cento.
Altri indizi arrivano dall’analisi del debito. Il 41.5 per cento del campione fa ricorso al debito bancario. Chi lo fa ha ricavi e asset maggiori, più dipendenti; stesse caratteristiche delle startup che hanno ricevuto più finanziamenti. Ma anche le maggiori perdite. Anche tra le startup che ricorrono alle banche c’è una maggiore presenza di società industriali nell’azionariato (con un peso del 46.2 per cento in media, contro il 26 per cento nelle altre aziende, quelle che non hanno debito). Il 32 per cento di queste startup opera nel settore delle attività manifatturiere (contro una media del 18 per cento).
Insomma, «sembra che le aziende meglio integrate con il tessuto industriale italiano, che è in buona parte manifatturiero, riesce a raccogliere più finanziamenti e supporto dalle banche; ha maggiori ricavi e asset più forti», riassume Cennamo. Si conferma il bisogno di focalizzare, ancora di più, la strategia governativa startup sulle caratteristiche del made in Italy, senza farsi influenzare dalle caratteristiche di altri- più importanti- mercati esteri (molto più dipendenti dagli investimenti venture). «Bisogna creare un ponte più forte tra i due mondi, le società industriali tradizionali e le startup innovative», dice Cennamo. Ci sarà probabilmente anche questo nel piano Industry 4.0 che il ministero dello Sviluppo economico presenterà la prossima settimana.
Articolo a pagina 29 del Sole 24 ore del 16 settembre