Due elementi sono alla radice dell’indebolimento del pound. Il tono netto che Theresa May ha voluto usare per escludere ogni possibile tradimento della volontà popolare, avocando a sè, e non a Westminster, il potere ultimo di decisione e per riaffermare che la “difesa” dall’immigrazione intra-Ue è elemento centrale della strategia di una Londra tornata «sovrana e indipendente». In secondo luogo il mercato dei cambi ha avvertito il brivido di una tempistica che si è fatta d’improvviso reale. La signora premier ha confermato che entro il marzo del 2017 sarà innescato l’articolo 50 capace di regolare il recesso dei membri Ue dal consesso comune. Significa che la Gran Bretagna ha – da oggi – due anni e mezzo per chiudere la trattativa probabilmente più complessa, in assoluto, fra una capitale e l’istituzione a cui appartiene.
Brexit è dunque divenuto evento inevitabile salvo colpi di scena che il mercato non considera. E tanto è bastato per spingere all’ingiù la sterlina mentre il Ftse cresceva sull’onda anche di nuove notizie positive dall’indice Pmi sulla manifattura. balzato a quota 55,4 nel mese di settembre. Una crescita dal 53,4 di agosto che si spiega con l’ottima performance delle esportazioni sulla scia, appunto, di un pound debole.