Boom di investimenti venture capital e oltre 1.500 incubatori fondati in meno di due anni. L’esplosione del mercato cinese delle imprese innovative si muove sul doppio binario dell’exploit di finanziamenti dai fondi dei capitali di rischio e una strategia governativa definita: ridurre la dipendenza dell’economia nazionale dall’industria pesante con il finanziamento della schiera di Pmi del tech attive a tutto raggio, dalla logistica digitale al commercio elettronico. L’influenza dai modelli Usa resta elevata, a partire dagli investimenti di fondi cinesi in aziende americane: 140 accordi siglati con società statunitensi nel 2015 e quasi 40 messi a segno nei primi cinque mesi dell’anno, con il traino di colossi locali come Tencent e Alibaba. Ma i numeri del mercato del Dragone riescono a brillare di luce propria, anche in rapporto al benchmark della Silicon Valley. Il primo semestre 2016 si è chiuso con 37 miliardi di dollari investiti dai fondi venture capital in «giovani aziende del tech» cinesi, mentre la raccolta complessiva dei fondi di capitali di rischio sostenuti dal governo di Pechino ha raggiunto il volume-monstre di 2,2 trilioni di yuan: l’equivalente di circa 330 miliardi di dollari a tasso corrente, un mare di liquidità allargato dai 231 miliardi raccolti nel solo 2015. Tra i casi più imponenti spiccano il sistema di pagamenti online Ant Financial (valutazione di 60 miliardi di dollari), il fenomeno del marchio hardware Xiaomi (45 miliardi di dollari di valore per un’azienda nata nel 2010) e Didi (28 miliardi di dollari), la piattaforma mobile di trasporti che ha appena raggiunto l’intesa con l’ex rivale Uber rilevando il marchio cinese della concorrente. Quasi impossibile, in compenso, fare una scrematura delle nuove realtà che emergono tra le metropoli del gigante asiatico. Anche se si parla di incubatori: il governo cinese, con l’obiettivo dichiarato di «favorire l’imprenditorialità», ha promosso dal 2014 ad oggi la nascita di circa 1.600 piattaforme hi tech per ospitare e far crescere iniziative imprenditoriali. In Italia, con le dovute proporzioni, sono 41. «Per farsi un’idea, si parla di una media di 1.200 imprese innovative in più al mese. Va rapportata ai numeri generali del Paese, ma la cifra fa il suo effetto» spiega al Sole 24 Ore Marco Mistretta, Ceo di IngDan Italia (filiale italiana della internet company IngDan). Lo scorso luglio la società ha selezionato e portato con sé sei startup italiane sul palcoscenico mondiale dell’Apec Smetc (Small and Medium Enterprises Technology Conference), appuntamento chiave per l’innovazione tecnologica in Asia. Quali sono i terreni più fertili per le nostre startup? Food e fashion mantengono il proprio peso specifico, ma la lista è molto più ampia: «I settori di maggior interesse realtà virtuale, robotica e intelligenza artificiale, senza dimenticare il gaming – spiega Mistretta – E tutto questo rientra nel programma di un governo che ha deciso di puntare sull’innovazione perché ha capito che queste saranno le imprese del domani e produrranno crescita». I limiti? Barriera linguistica e regolamentazione sono scogli che vanno considerati prima di qualsiasi investimento. A patto che non diventino un freno, o un pregiudizio, rispetto all’intero mercato: «Fino ad oggi si è parlato spesso di Cina per questioni di proprietà intellettuale e lingua, ma non è solo questo. È un mercato che sa tenere il passo della tecnologia, e di chi la produce».