Senza investimenti non c’è lavoro e senza lavoro non si genera crescita. E senza crescita non c’è futuro. È ricorso a questa citazione Valerio De Molli, Ceo di The European House Ambrosetti, per introdurre (in occasione del Tech Insights 2016 organizzato da United Ventures ieri a Milano) i dati che fotografano lo stato di “attrattività” dell’Italia per gli investimenti stranieri. La riflessione su quanto e come la Penisola sa attirare capitali, anche verso l’ecosistema delle startup, è partita dall’analisi delle spese di ogni singolo Paese in ricerca e sviluppo (e quindi dagli investimenti in innovazione e tecnologie) e dalla stretta correlazione di queste spese con la crescita del prodotto interno lordo. Ebbene, davanti a tutti corre la Cina, seguita a grande distanza da Estonia, Turchia e Corea del Sud (i dati sono della World Bank). L’Italia, rispetto a questo rapporto, è indietro, molto indietro. E lo è anche nell’indice che misura la correlazione fra investimenti in R&D e crescita dell’export, dove a primeggiare è sempre il Paese del Dragone.
L’Europa dei 28, anche se ha perso percentualmente terreno dal 2006 a oggi, rimane comunque il più grande bacino di raccolta degli investimenti azionari stranieri al mondo, catturando oltre il 31% dei circa 18,5 trilioni di dollari (dati Unctad) movimentati a livello globale nel 2014. Nella fase di stallo che affligge l’Europa post crisi economica del 2008, ha spiegato ancora De Molli, il nostro Paese si presenta con la macchia della 25esima posizione occupata nella classifica dei flussi Fdi (Foreign direct investments) consolidati nel 2014, con circa 374 miliardi di dollari (ancora dati Unctad), una cifra quattro volte inferiore a quella del Regno Unito e pari alla metà di quella registrata in Germania e Francia. L’Italia paga quindi un gap importante, eppure può vantare il quarto fatturato in Europa nel settore hi-tech (con oltre 45mila miliardi di euro) ed è il settimo Paese al mondo nell’export della produzione manufatturiera. Una dicotomia evidente, che il Global Competitiveness Index concepito da Ambrosetti (elaborando diversi parametri legati alla capacità di sviluppare, valorizzare e attrarre risorse) va in parte a ridimensionare gratificando l’Italia della 14esima posizione assoluta nel ranking mondiale.
Il livello di attrattività della Penisola per gli investimenti, ha infatti concluso De Lolli, è quindi buono e potenzialmente ottimo, e va potenziato ovviamente anche lungo le direttrici dell’open innovation e delle tecnologie digitali che stanno cambiando i modelli di business e di offerta di servizi tradizionali.
Massimiliano Magrini, co-founder e Managing Partner di United Ventures, in proposito, è convinto del fatto che “gli investimenti in società innovative continuano a rappresentare una grande opportunità perchè in Italia esiste ancora un forte gap tra domanda imprenditoriale e offerta di capitale di rischio”. Il problema delle limitate dimensioni del fenomeno startup in Italia è noto e risponde innanzitutto al numero esiguo di operatori di venture capital che possano vantare “track-record” di successo. La svolta, secondo Magrini, può quindi avvenire solo se la crescita degli investimenti si svilupperà con logiche di venture finalizzate a garantire un concreto apporto di equity agli imprenditori più innovativi.
La realtà italiana, lo dicono i dati pubblicati di recente da Startupitalia (elaborando quelli di Finsmes) vede invece il totale dei finanziamenti raccolti dalle startup nei primi nove mesi essere sì in forte crescita rispetto all’anno passato ma fermo a poco meno di 136 milioni di euro, con un taglio medio delle operazioni di 2,5 milioni. Perchè, leggendo queste cifre, un investitore internazionale deve credere nell’ecosistema startup italiano? Come spiega ancora Magrini al Sole24ore, “l’investitore non deve credere all’ecosistema in quanto tale ma nei progetti imprenditoriali supportati da partner in grado di renderli appetibili ai round di finanziamento e ai capitali che vengono dopo la fase di early stage”. L’ecosistema italiano offre segnali di vivacità, è indubbio, ma a detta del co-founder di United Ventures, “è ancora in una posizione di follower in Europa occidentale, a causa della forte dicotomia esistente fra le potenzialità del sistema e gli effettivi volumi di investimento rivolti alle aziende innovative, che nel caso dei venture sono almeno cinque volte inferiori a quelli dei Paesi guida”.