Sono diverse le alternative in discussione in questi giorni in merito alle misure di uscita dall’Ue della Gran Bretagna. Ma quella più probabile – per i paletti che l’Europa pone a Londra e per la volontà britannica di recuperare piena sovranità e controllo sull’immigrazione – è la “hard” Brexit.
In cosa consiste? La rapida attivazione dell’articolo 50 con accordo minimo di libero scambio sulla riduzione delle tariffe di base, ma totale esclusione dei servizi. L’impatto sulla finanza britannica sarebbe davvero duro: tra i 31 e i 35 mila posti di lavoro in meno per le attività strettamente collegate alla Ue, il doppio per l’ecosistema creato dalla City (65-75 mila posti). In perdita anche sul versante dei ricavi, con circa 32-38 miliardi di sterline in meno per banking, assicurazioni e indotto.
Buie anche le prospettive delineate dal Tesoro, che valuta l’impatto dell’addio al mercato interno – esteso a tutti i settori – in 66miliardi di minor gettito fiscale. Proiettato in termini di Pil, nei prossimi 15 anni significa bruciare il 9,5% dell’economia nazionale.
Un’alternativa possibile è la “soft” Brexit, che permetterebbe la partecipazione all’unione doganale. In questo caso il prezzo per la sola financial industry si fermerebbe a 2 miliardi di sterline, 3-4mila posti perduti, un gettito in calo di qualche centinaio di milioni.