In Italia la grande impresa rischia l’estinzione. Una causa è certamente la recessione iniziata nel 2008 – che ha accelerato il processo di ridimensionamento avviatosi già nei primi degli anni ’90 – ma complici sono anche tre fuochi internazionali: il nuovo gigantismo del capitalismo, le ibridazioni fra settori, le asimmetrie fiscali che generano nomadismo societario.
Dall’analisi (della società di consulenza Prometeia) sulle imprese con oltre un miliardo di euro di fatturato emerge con chiarezza la crisi delle imprese italiane che si dimostrano più piccole – il valore medio della produzione è di circa 3 miliardi di euro contro i 3.5 del resto degli altri 14 Paesi Ue che compongono il campione – meno patrimonializzate (grado di patrimonializzazione del 30% contro il 35% delle altre realtà) e con una minore dotazione di brevetti (il numero medio per impresa italiana è 53 contro i 132 europei). Inoltre, cresciamo di meno – dal 2007 al 2014 la crescita media del fatturato italiano è stata del 26.3% contro il 32.4% degli altri Paesi – e siamo meno redditivi, fatta eccezione per il settore manifatturiero, che si dimostra (non solo in questo caso) maggiormente al passo con i ritmi internazionali. Il Roe della manifattura italiana è superiore di quasi quattro punti percentuali rispetto ai concorrenti stranieri (16.3% contro 12.6%).
Una situazione preannunciata già dalla traiettoria storica che dal 1991 al 2014 ha visto diminuire le imprese con oltre mille addetti da 241 (con quasi 778mila occupati) a 167 con 408mila lavoratori. Dai primi anni Novanta il numero di aziende di questa dimensione è sceso di quasi un terzo con una conseguente diminuzione del personale pari a quasi la metà di quello originario.