C’erano una volta Enrico Cuccia e Raffaele Mattioli. La Mediobanca di Cuccia accompagnava le imprese italiane nello sviluppo interno secondo una visione, magari discutibile ma assai precisa, della frontiera tecnologica e della specializzazione produttiva dell’Italia, con la sensibilità di calibrare l’interesse nazionale rispetto ai vizi e alle virtù del ceto imprenditoriale. La Comit di Mattioli esplorava con le aziende i mercati internazionali, quando le frontiere valevano per tutti, uomini e beni, e investire negli Stati Uniti o in Iran era un’operazione di alta diplomazia e di sofisticata analisi geo-economica. Accadeva che talvolta fossero le due banche a ispirare le aziende nel loro processo di crescita e che talvolta toccasse alle seconde indurre le prime ad aggiornare orizzonti e paradigmi: era la stagione dei grandi gruppi industriali privati e delle aziende appartenenti all’economia pubblica.
Da allora, molto è cambiato. La traiettoria storica del nostro capitalismo industriale – la fine del canone della grande impresa e l’assestarsi di un modello basato sulla prevalenza della media – ha fatto il paio con l’evoluzione degli istituti di credito. Un’evoluzione incompiuta: salvo alcune eccezioni, il prevalere della dimensione media o piccola nel settore del credito è una delle ragioni per cui buona parte delle banche si trovi ancora nel pieno di una crisi di identità. Di cui pagano il prezzo non solo gli azionisti, ma anche i clienti. A partire dalle imprese. Il risultato è la strutturale difficoltà a costruire una partnership strategica vera e duratura fra mondo finanziario e mondo industriale che faciliti alla nostra manifattura una generale opera di consolidamento, che la incentivi a compiere salti dimensionali rinunciando al tabù del controllo familiare, che le suggerisca la definizione di nuovi posizionamenti tecnologici e che la assista nelle espansioni per linee esterne. D’altronde, dietro a tutto questo c’è un paradosso di fondo: con una redditività da zero virgola, un business model in molti casi superato, una refrattarietà alle aggregazioni e una sovraccapacità produttiva che si ripercuote inesorabilmente sui costi, le banche oggi si trovano a chiedere alle imprese ciò che esse stesse, per prime, faticano a compiere: ripensarsi, strutturalmente.