Prima il dietro-front sulla Tpp, poi l’ipotesi della “tassa di confine”, il muro fiscale contro l’invasione delle merci estere. Il cambio di amministrazione a Washington rischia di portare pessime notizie ai Paesi del Sud-est asiatico, gran parte dei quali hanno fondato sul commercio il proprio sviluppo economico e ora sono tra le possibili vittime del neo-mercantilismo americano.
Se il Congresso dovesse adottare una tassa di confine del 20%, le esportazioni dei Paesi asiatici negli Stati Uniti potrebbero subire una contrazione del 3-4%, con un freno alla crescita economica della regione dello 0,5%. Cina, Filippine e Taiwan sarebbero i più penalizzati, con una contrazione dell’export che potrebbe superare il 4%. Solo il colosso cinese nel 2015 ha piazzato oltre 483 miliardi di dollari di beni negli Stati Uniti.
Sarebbe un brutto colpo in particolare per il Vietnam, la cui economia avrebbe potuto ricevere dalla Trans pacific partnership un’iniezione di 8 punti percentuali di Pil entro il 2030, mentre le esportazioni sarebbero cresciute del 17%, secondo la Banca mondiale. Ancora più ottimiste le previsioni di Eurasia group: +11% del prodotto interno entro il 2025 e +28% dell’export. Inutile dire che gli Stati Uniti sono il primo mercato di sbocco per il Paese, con un volume di prodotti esportati raddoppiato negli ultimi cinque anni, che vale ormai il 22% del totale.
Le Filippine, che puntano su una crescita del Pil compresa tra il 6,5 e il 7,5% nel 2017, potrebbe trovare tra i principali ostacoli proprio la stretta protezionistica statunitense. A Manila, tuttavia, si guarda già oltre il dazio sulle merci: il settore dei servizi alle imprese in outsourcing, nel 2016, ha raggiunto un volume d’affari di 23 miliardi di dollari, per il 75% generato da aziende Usa.
Resta un’unica debole speranza per le economie asiatiche: trovare un alleato involontario nel rialzo del dollaro, che ridurrebbe l’effetto reale sul prezzo finale per imprese e consumatori americani.