Quasi 3.400 operazioni fra M&A e quotazioni, ma un calo del 68% nella nascita di “unicorni”: le startup che raggiungono una valutazione superiore al miliardo di dollari prima ancora di debuttare in Borsa. Gli ultimi dati sui finanziamenti alle imprese tech di Cb Insights, una società di ricerca Usa, fanno riemergere il tema della iper-valutazione delle startup: il rischio di gonfiare il valore effettivo di aziende che piacciono agli utenti ma non riescono a mettere frutto il proprio modello di business, magari in vista di Ipo clamorose come quella di Snap (l’azienda che realizza Snapchat).
Lo scetticismo traspare dalla diminuzione di valutazioni monstre in un mercato che resta, per ora, tutt’altro che spento. I cosiddetti unicorni sono calati dai 77 del 2015 ai 25 del 2016, nonostante gli investitori abbiano prodotto nello stesso anno almeno 18 exit (la vendita di quote) da più di un miliardo di dollari, come quelle di Dollar Shave Club (un sistema di consegne di rasoi da barba a domicilio) e Jet (piattaforma di shopping online, oggi inglobata dal colosso Usa del retail Walmart).
Segno, forse, che gli investitori sono più prudenti nel far lievitare i numeri di aziende singole dopo gli exploit finanziari degli ultimi anni.
Secondo un’analisi del portale americano Techcrunch, i 20 unicorni più ricchi su scala globale sono, in realtà, sopravvalutati del 27% rispetto ai propri fondamentali. Qualche esempio, solo per restare tra i più recenti? Si va dal portale di affitti fra privati Airbnb, valutato circa 20 miliardi di dollari, al gigante dello streaming musicale Spotify: 40 milioni di abbonati, 100 milioni di utenti attivi e un bilancio in perdita da 184,5 milioni di euro nel 2015, anche se l’azienda conta di arrivare al pareggio già quest’anno.
I più critici temono una startup bubble, una bolla di startup pronta a sgonfiarsi e trascinare con sé i miliardi investiti fino ad oggi. Ma c’è chi pensa che sia solo questione di tempo: le startup non possono valutarsi con gli stessi strumenti delle aziende tradizionali. «Cento o cinquanta anni fa i cicli di vita per creare un’azienda globale erano di decenni. Oggi può succedere in pochi anni» dice Gianpiero Lotito, fondatore di FacilityLive. La sua azienda, nata nel 2010 a Pavia, ha incassato 30 milioni di euro da investitori privati con il suo progetto di un motore di ricerca «capace di sfidare Google». Una cifra che si fa notare in Italia, ma resta ben al di sotto dei valori raggiunti da altre società in Stati Uniti ed Europa. Lotito, però, respinge l’equazione tra valutazione miliardarie e l’incognita di una bolla del tech. «Per poter sostenere la crescita di un’azienda con questo potenziale è necessario avere il capitale – dice Lotito – Essere un unicorno non comporta necessariamente una valutazione a rischio di bolla. Al contrario, queste valutazioni sono legate al successo di un particolare business model digitale».
Se si stringe il campo sull’Italia, la questione si fa più sottile. In assenza di exit miliardarie, i rischi di sopravvalutazione emergono dallo stato patrimoniale delle quasi 7mila startup iscritto al registro delle Camere di Commercio. Una prima anomalia che balza all’occhio è che le immobilizzazioni (i beni materiali e immateriali che le aziende possono sfruttare nel tempo, come macchinari o software) incidono per il 29,3% sull’attivo patrimoniale: un rapporto di nove volte la media delle altre società di capitali, ferme al 3,3%. Il dato può far pensare a una carenza di liquidità, a margine della performance in rosso dell’intero sistema: pochi finanziamenti e una quota di quasi 6 aziende innovative su 10 in perdita a fine 2016. Anche qui però, secondo Lotito, si tratta di una dinamica connaturata al ciclo di vita delle startup: negli anni di assestamento – dice – è normale patrimonializzare «quello su cui si svolge la propria attività». Sia che si tratti di una sede fisica sia, come succede tra i colossi del tech, di un software o un codice di programmazione: «Così riesco a capitalizzare gli investimenti – dice Lotito – In fase di crescita di una startup sono inevitabilmente superiori al fatturato, per via del capitale di rischio necessario a costruire il software stesso».