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Quanto valgono le rimesse degli stranieri? I dati dal 2005 al 2015

5,252 miliardi di euro è la somma uscita nel 2015 dall’Italia sotto forma di rimesse, una cifra pari a quanto ha fatturato Ferrovie dello Stato Italiane lo stesso anno. Le rimesse sono l’ammontare di denaro, solitamente destinato a familiari e parenti, che i lavoratori stranieri trasferiscono nel proprio Paese d’origine. Secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia, quello del 2015 è l’importo più basso degli ultimi 5 anni: i migranti residenti in Italia, infatti, nel 2011 hanno inviato all’estero 7,394 miliardi di euro, cifra che è andata progressivamente diminuendo, passando per i 6,833 miliardi del 2012, fino ai 5,333 miliardi del 2014. Ad aver ricevuto la mole di rimesse più alta nel 2015 è la Romania, con 848 milioni di euro, seguita al secondo posto dalla Cina con 557 milioni di euro e dal Bangladesh al terzo, con 435 milioni di euro. Incontrare Romania e Cina tra le destinazioni principali delle rimesse conferma quanto siano radicate nel nostro territorio le comunità provenienti da questi Paesi. Basti pensare a Prato, dove gran parte delle aziende tessili sono a conduzione cinese, o al quartiere Esquilino di Roma e alla Chinatown di Milano, chiari esempi di “città nella città”. Lo stesso vale per la comunità romena, che all’inizio del 2016 si conferma come la prima comunità straniera in Italia. La presenza romena si fa sentire nella provincia di Roma, dove risiedono più cittadini romeni di quanti non ve ne siano in tutto il Mezzogiorno, ma anche nella provincia di Torino, dove i romeni residenti rappresentano quasi la metà della popolazione non italiana.

 

 

I principali settori di occupazione dei lavoratori di Romania, Cina e Bangladesh
Nel 2015, gli occupati romeni in Italia lavorano principalmente nel settore dei servizi (in particolare i servizi alla persona), dove secondo il Centro Studi e Ricerche IDOS sono inseriti il 55% dei romeni occupati. L’industria è la seconda attività in cui si registra una forte presenza di lavoratori romeni, soprattutto per quanto riguarda il comparto dell’edilizia, dove rappresentano il 40% degli addetti stranieri. I dati diffusi dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ci dicono, invece, che nel 2015 più del 40% dei cinesi occupati lavora nel settore del commercio, seguito dall’attività industriale (27,2%). I lavoratori del Bangladesh sono impiegati principalmente nel settore alberghiero e nella ristorazione (33,1%), ma una larga fetta della comunità si occupa anche di commercio (28,6%).

Da quali regioni d’Italia provengono le rimesse più elevate?
Il flusso di denaro più sostanzioso, trasferito dai lavoratori migranti nel 2015, proviene dalla Lombardia: 1,157 miliardi di euro è infatti la somma uscita dalla regione, più dei 920 milioni euro provenienti dal Lazio e dei 564 milioni euro inviati dalla Toscana. Non a caso, Lombardia e Lazio sono anche le prime due regioni d’Italia per numero di residenti stranieri. Riguardo, invece, i Paesi di destinazione delle rimesse, la Toscana è la regione che invia in Cina più denaro di tutte le altre (183 milioni di euro). Dalla Lombardia, nel 2015, parte invece un flusso di denaro destinato principalmente nelle Filippine (124 milioni di euro), mentre dal Lazio la maggior parte delle rimesse sono inviate in Cina (174 milioni di euro), seguita a poca distanza dalla Romania (160 milioni di euro). Il dato che riguarda la Toscana conferma la presenza di una vasta comunità cinese a Prato e a Firenze. Lo stesso vale per il Lazio, dove la comunità romena e quella cinese, come abbiamo visto, sono ben radicate nel territorio.

 

Diminuiscono le rimesse verso la Cina
Negli ultimi 5 anni, se il dato sulle rimesse inviate in Romania si è mantenuto relativamente costante, diverso è il caso della Cina. I dati della Banca d’Italia, infatti, dicono che il flusso di denaro trasferito nella Repubblica Popolare tra il 2011 e il 2015 è andato progressivamente diminuendo, tanto che la Cina ha perso il ruolo di primo Paese straniero per mole di rimesse ricevute, scivolando in seconda posizione. I 2,537 miliardi di euro, che nel 2011 i lavoratori cinesi inviano a casa, iniziano a diminuire nel 2013, quando vengono trasferiti in Cina 1,098 miliardi di euro. È il 2014, però, l’anno che segna un deciso cambio di rotta: dall’Italia viene spedita nella Repubblica Popolare una somma di “soli” 819 milioni di euro, tanto che la Romania con i suoi 876 milioni scavalca la Cina e sale al primo posto della classifica.

Migranti ieri e migranti oggi: la storia dei flussi

Se si volessero ripercorrere le fasi più recenti dell’evoluzione dei flussi migratori, l’analisi dovrebbe partire dalla fine del XIX secolo, quando l’Europa inizia a sperimentare una vera e propria migrazione di massa, in particolare verso le Americhe. Questi due continenti sono da sempre un punto sulle rotte dei migranti. Dal 1820 al 1940 hanno attraversato l’oceano circa 55-60 milioni di europei dei quali 38 milioni si sono trasferiti negli Stati Uniti. A emigrare di più è stato il Sud Europa e in particolare paesi come Italia, Spagna e Portogallo.
Si stima che nel primo decennio del Novecento il tasso di emigrazione dall’Italia è stato pari a 108 persone ogni mille abitanti, il doppio rispetto a Spagna e Portogallo, che oltre agli Stati Uniti, raggiungevano destinazioni dell’America Latina quali Argentina e Brasile e, nei primi anni del Novecento, il Canada.

Secondo il rapporto di ricerca “L’evoluzione storica dei flussi migratori in Europa e in Italia” dell’ Università politecnica delle Marche, a incentivare l’incremento delle migrazioni di massa sono diversi fattori: in primo luogo la riduzione sostanziale dei costi di trasporto, sia dal punto di vista dei tempi che da quello delle risorse economiche, ma soprattutto le migliorate condizioni igienico sanitarie che rendono più vivibili i mezzi di trasporto come le navi.
D’altro canto, in buona parte dell’Europa, il maggiore benessere economico, dovuto al processo di industrializzazione, provoca un aumento dei salari medi e permette ad una fetta sempre più consistente di popolazione di poter affrontare economicamente un viaggio transoceanico.
Si ammorbidiscono le leggi sull’emigrazione e si riducono le restrizioni anzi, alcuni paesi Europei, introducono sussidi per favorire il trasferimento dei cittadini in territori oltreoceano. Il governo inglese, ad esempio, vara generosi piani di sostegno per favorire l’insediamento di cittadini britannici in Australia.
A favorire, invece, l’emigrazione di oltre un milione e mezzo di Irlandesi verso gli Stati Uniti è la grande carestia che investe la nazione tra il 1845 e il 1849.

In questa escalation migratoria una brusca battuta d’arresto arriva dallo scoppio della prima guerra mondiale. Vengono varate politiche di immigrazione più restrittive da parte del governo statunitense che prevedono test di alfabetizzazione e una quota annuale di cittadini ammessi.
Con il secondo dopoguerra cambia tutto. Cambia lo scenario economico mondiale e alcuni dei flussi più imponenti invertono la rotta. L’Europa occidentale da punto di partenza diventa punto di destinazione.
A favorire questo radicale cambiamento fu soprattutto il boom economico con l’occupazione che raggiunge il suo livello più alto. L’industria necessita di più mano d’opera e comincia a reclutare “Guest Workers”: lavoratori stranieri che offrono una risposta temporanea alle esigenze del mercato del lavoro. In Francia, Germania, Regno Unito, Svizzera, Belgio e Olanda giungono lavoratori dai paesi del Sud Europa (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Turchia, Jugoslavia) e dell’Africa del Nord (Marocco, Tunisia, Algeria). La direttiva principale dei flussi migratori è l’asse Sud-Nord, ma principalmente all’interno dello stesso continente europeo. In Germania, tra il 1957 e il 1972 la quota della forza lavoro di origine straniera aumenta di 10,6 punti percentuali (dallo 0,6 all’11,2%). In generale, tra l’inizio degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta, il numero totale di stranieri residenti in Europa subisce un incremento di circa 6 milioni di individui, quasi quanto l’intera popolazione di Caracas.

Si legge nel rapporto: “L’Europa meridionale (Spagna, Portogallo, Italia, Grecia), in seguito ad una crescente pressione migratoria dai paesi in via di sviluppo, si era trasformata da area di origine ad area di destinazione. La geografia mondiale ed europea dei flussi migratori era ormai irreversibilmente mutata.”

Ma cosa succede in Italia?
Mentre lo shock petrolifero del 1973 e la recessione mondiale che ne segue avviano politiche restrittive verso l’immigrazione e una violenta diminuzione della richiesta di forza lavoro da altri paesi, in Italia è proprio in quel periodo che cominciano ad arrivare i primi stranieri.
Secondo Einaudi: “Grazie al boom economico, che aveva già alimentato i primi arrivi di stranieri in Italia per ragioni di lavoro; la crescita del reddito e le migliori condizioni di vita dei cittadini italiani avevano creato una domanda di lavoratori stranieri per quei lavori a scarsa qualificazione, con salari bassi rispetto agli standard italiani e non più (economicamente e socialmente) accettati dagli autoctoni”.
Altro fattore sicuramente da considerare nella geografia europea delle migrazioni contemporanee e che interessa in particolare il nostro Paese, è il crollo dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est.
La caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989 segna la fine dell’isolamento dei Paesi comunisti dalle economie dell’Europa occidentale e proprio in quell’anno circa 1,2 milioni di persone emigrano dai Paesi dell’Est.

È, infatti prevalentemente quello il luogo di origine di chi in questi anni lascia la propria patria. Sono in maggioranza donne, provenienti dall’ex-Jugoslavia per sfuggire ai conflitti in quell’area, dall’America Latina a causa della situazione economica stagnante, da Africa e Asia spinte dalla fine del colonialismo. In alcuni casi il fenomeno diventò un vero e proprio esodo di massa, come per gli albanesi nei primi anni Novanta.
King ritiene che: “La marcata presenza femminile è stimolata da una forte domanda di lavoro nel settore della cura per gli anziani e dalla presenza di un modello di welfare fortemente familistico. Questa rappresenta una peculiarità del modello migratorio italiano frutto di un welfare state debole che scarica il peso della cura degli anziani e dei bambini sulle famiglie, che ricorrono alla manodopera straniera”.

L’evoluzione del fenomeno migratorio in Italia è caratterizzato da frammentazione e globalizzazione delle provenienze. Secondo il rapporto: “Se negli anni Settanta le prime 10 nazionalità rappresentavano il 12,8% degli immigrati, venti anni dopo esse costituivano il 40% dei flussi, e oggi solo le prime cinque nazionalità rappresentano il 50,6% della popolazione immigrata. Ad oggi in Italia risiedono immigrati di 192 nazionalità differenti”.
Negli anni ’70 l’Italia veniva raggiunta in grande misura da persone provenienti dagli USA e dalla Germania, seguiti da Svizzera e Gran Bretagna; negli anni ’90 si affacciano al bel paese popolazioni provenienti da Africa e Medio Oriente come marocchini e tunisini; nel decennio che va dal ’95 al 2005 a giungere in Italia sono prevalentemente popolazioni dell’est-Europa (ex-Jugoslavia, Albania, Romania, Ucraina) oltre al Marocco.

Osservando i dati del sesto rapporto annuale “I migranti nel mercato del lavoro in Italia”, a cura della Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione, negli ultimi due anni, molte comunità hanno fatto registrare cospicui tassi di crescita.
Tra il 2013 e il 2014, ad esempio, la comunità rumena, la più numerosa, è cresciuta del 15,9% e del 4,7% tra il 2014 e il 2015, non è però tra le prime quattro comunità con gli incrementi maggiori negli ultimi 12 mesi che invece si registrano per quelle egiziana (+8,0%), nigeriana (+6,5%), pakistana (+6,2%) e srilankese (+5,8%).
Il 2015 si chiude con l’ 8,3% (in media) di popolazione straniera in Italia sulla popolazione nativa residente. In aumento del 37,5% rispetto al 2010. La fetta più grossa, 22,9%, risiede in Lombardia. Oltre ad essere eterogenea, la popolazione straniera è anche molto giovane: il 56% circa è compresa nelle fasce di età che vanno dai 15 ai 44 anni contro il 34,3% degli italiani. Solo il 3% della popolazione straniera ha più di 65 anni. Ben 20 punti percentuali in meno rispetto agli italiani.

Il grande economista John Kenneth Galbraith (1908-2006) così criticava il mancato riconoscimento delle virtualità di questo fenomeno:
“Le migrazioni sono la più antica azione di contrasto alla povertà, selezionano coloro i quali desiderano maggiormente riscattarsi, sono utili per il paese che li riceve, aiutano a rompere l’equilibrio di povertà nel Paese di origine: quale perversione dell’animo umano ci impedisce di riconoscere un beneficio tanto ovvio?”.
L’Italia negli ultimi anni si sta aprendo a politiche sempre più inclusive ma tuttavia circondate da un alone di discriminazione. Ne è un esempio la proposta del prefetto Mario Morcone – capo del dipartimento immigrazione al ministero dell’interno – che dalle pagine del Corriere della Sera suggerisce di usare il volontariato come strumento per favorire l’integrazione.
Leggendo tra le righe di questa proposta si corre il rischio di dimenticare l’importante ruolo che il lavoro ha nella costruzione di un’ identità, nel generare utilità alla collettività, nel costruire una vita dignitosa.
E questo interessa tutti, non riguarda solo i migranti.
Il rischio di rendere il volontariato un’istituzione che assomiglia più ad un obbligo al lavoro senza alcun diritto al salario non è poi così improbabile. Come scrive Marta Fano per Internazionale, Morcone apre il dibattito su una contraddizione di fondo: “se c’è la possibilità di fare volontariato significa che quei posti di lavoro esistono, tuttavia non si è disposti a retribuirli. Livellare verso il basso i diritti e il lavoro non farà altro che aumentare i già inquietanti livelli di povertà in Italia”.

Master Comunicazione e Media Digitali 2016/2017

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