Cinquanta milioni di abbonati, una leadership senza rivali e una Ipo sempre più vicina. Eppure il modello di business non è ancora redditizio. È questa, in soldoni, la storia di Spotify, ex startup nata a Stoccolma, oggi Ltd di successo a Londra. Spotify è il fiore all’occhiello del mondo tech europeo. Unica realtà a poter competere con l’olimpo dei titani californiani.
Nei giorni scorsi, con un tweet di ringraziamento, l’azienda ha annunciato il traguardo dei 50 milioni di abbonati. Il dato segna una crescita del 25% in sei mesi. Nel settembre scorso, infatti, la società svedese che offre il servizio di musica in streaming aveva reso noto di aver toccato i 40 milioni di utenti paganti.
Le chart sono di Statista. Qui l’indirizzo
I numeri dicono chiaramente che quella di Spotify è una posizione di dominio robusto, nel campo della musica in streaming. Il suo maggior competitor, il servizio Apple Music, è fermo a 20 milioni di utenti abbonati. Segno evidente che neanche la diffusione degli iPhone (device su cui Apple Music è servizio nativo) riesce a contrastare lo strapotere di Spotify.
Per attrarre clienti e soprattutto per aumentare le entrate, Spotify nei giorni scorsi ha iniziato a testare su un piccolo numero di utenti un nuovo servizio, chiamato Spotify Hi-Fi, che offre musica con una qualità audio superiore a un prezzo di 5-10 dollari al mese in aggiunta all’abbonamento mensile da 10 dollari.
Dietro ai due apripista c’è il vuoto. Altri servizi come Tidal e Deezer, nonostante ottimi cataloghi, rimangono ampiamente sotto i 10 milioni di abbonati. La partita, insomma, non esiste nemmeno.
Eppure la storia di Spotify ci dice anche che il modello di business non è ancora redditizio. Nonostante 50 milioni di utenti paghino per ascoltare musica sulla sua piattaforma. Com’è possibile tutto ciò?
Nel 2015 Spotify ha fatto registrare perdite per 194 milioni di dollari, nonostante un fatturato da record. I costi di licenza per gli oltre 30milioni di brani presenti nel suo catalogo sono una zavorra incredibile. Solo questi portano via l’80-85% dei ricavi. Inoltre, la raccolta pubblicitaria che riguarda gli abbonamenti free (quelli che non pagano ma si beccano l’inserzione pubblicitaria durante l’ascolto) non riesce a coprire i costi.
Per alcuni analisti il punto di pareggio è vicino, grazie all’aumento degli utenti iscritti. Intanto, però, le voci di una quotazione in borsa si fanno sempre più insistenti. Oggi Spotify vale circa 8,5 miliardi di dollari. Un’eventuale Ipo sarebbe una bella storia da raccontare.
La svolta sui diritti
C’è da aggiungere che in queste ore circola una voce sempre più insistente. Spotify, infatti, a quanto pare sarebbe in procinto di cambiare una delle sue principali caratteristiche, e cioè disponibilità di tutti i suoi 30 milioni di brani musicali sia agli utenti abbonati sia a quelli che non pagano ma accettano di guardare la pubblicità. Stando alle indiscrezioni riportate dal Financial Times e confermate da altre testate, la compagnia avrebbe acconsentito a riservare l’accesso ai nuovi album più importanti solo agli utenti paganti.
La novità rientrerebbe nell’ambito di un accordo con le principali case discografiche, che in cambio offrirebbero uno sconto sulle royalty pagate da Spotify. In base all’intesa, che potrebbe essere siglata nelle prossime settimane dopo mesi di trattative, alcune nuove uscite musicali sarebbero accessibili solo ai 50 milioni di abbonati di Spotify. Gli altri 50 milioni di utenti, che non pagano ma guardano gli spot, sarebbero esclusi per un arco predefinito di tempo.
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