Più di un comune italiano su quattro finanzia le spese ordinarie con entrate straordinarie. Chi più, chi meno, oltre il 27% degli enti locali nel 2014 si è trovato in difficoltà dal punto di vista dell’equilibrio della parte corrente del bilancio. Ovvero, riportando il tutto ad una dimensione famigliare, è come avesse dovuto vendere l’auto per avere i soldi per fare la spesa.
A raccogliere e pubblicare questi numeri è stata l’associazione OpenPolis, attraverso la sua piattaforma OpenBilanci. È qui che vengono resi disponibili i dati legati all’equilibrio della parte corrente di bilancio. Un indicatore ottenuto sommando le entrate dei primi tre titoli del documento contabile di ogni ente locale. Dividendo quindi il totale per le spese correnti e moltiplicando il tutto per cento.
Prima di addentrarsi nei dati, alcune premesse. Le entrate in questione riguardano quelle tributarie, cioè le tasse, i trasferimenti dallo Stato o dalle regioni e le entrate extra-tributarie. Ovvero i proventi per i servizi erogati dal comune e, se e quando ci sono, i dividendi delle società partecipate. Le spese correnti sono invece quelle legate alla gestione ordinaria degli enti locali. Ad esempio i contributi per i servizi sociali, l’acquisto di beni di consumo, ma anche gli stipendi dei dipendenti.
Ora, la legge ha dato ai comuni la possibilità di finanziare la spesa corrente anche con entrate in conto capitale, quelle normalmente destinate alla realizzazione delle opere pubbliche. Al punto che molti enti locali hanno venduto il patrimonio comunale, ad esempio un terreno, per sostenerle. O hanno destinato a questo scopo gli oneri di urbanizzazione, i soldi versati dai privati che costruiscono nel territorio comunale.
Bene, e dove sta il problema? È molto semplice. Se in fase di preventivo la giunta pensa di vendere immobili per un valore complessivo di 1 milione di euro e poi non riesce a farlo, allora ha due possibilità: o trova questi soldi da un’altra parte oppure taglia i servizi. Per questo più è alta la dipendenza della spesa corrente dalle entrate in conto capitale, più è facile che il bilancio di un comune vada in sofferenza. Sofferenza che a cascata si riverbera sui cittadini, vuoi in termine di minori servizi, vuoi di tasse più elevate. Tutto ciò premesso, la situazione relativa al 2014 fotografata da OpenBilanci è questa:
L’indicatore realizzato da OpenBilanci è espresso in percentuale. Più è alta, più le entrate dei primi tre titoli sono in grado di coprire le spese correnti. Se il valore è inferiore a 100, questo significa che una parte di queste spese viene sostenuta con entrate in conto capitale. Ovvero alienazioni o oneri di urbanizzazione.
La situazione migliore si registra a Bastiglia, in provincia di Modena, dove l’indicatore tocca l’invidiabile quota del 543%. Quella peggiore a Margherita di Savoia, tra Barletta, Andria e Trani, dove i primi tre titoli di entrata coprono appena il 12,9% delle spese correnti. Tra le città con più di 200mila abitanti la situazione migliore è a Verona (118,3%), le peggiori a Napoli e Catania (rispettivamente 71,7 e 71,2%). Milano è al 107%, Roma al 99,57. Ovvero ad un passo dall’indipendenza dalle entrate in conto capitale.
Più in generale, il colpo d’occhio è impietoso. Nel senso che le macchie rosse, quelle cioè relative ai comuni che devono ricorrere a entrate straordinarie per sostenere spese ordinarie, si concentrano soprattutto nelle regioni del centro e del Sud Italia. Questo, sostanzialmente, può significare due cose. O che le spese di questi comuni, ad esempio quelle legate al personale, sono troppo alte. O che questi enti locali sono poco capaci di riscuotere quelle tasse che dovrebbero alimentare il primo titolo delle entrate e sostenere la spesa corrente. Sia come sia, il risultato è che i sindaci finiscono per vendere il patrimonio pubblico o per consumare il territorio allo scopo di riuscire a far quadrare i conti.