Leggere i giornali in spiaggia non sempre è una buona idea. Soprattutto alla fine di un’estate che sembra non finire mai e alla vigilia di una campagna elettorale che, tanto per cambiare, vorrebbe ripartire da nuove promesse pensionistiche per lavoratori e lavoratrici a cavallo tra i cinquanta e i sessant’anni. Promesse che, se mantenute, si tradurranno naturalmente in nuovi debiti pensionistici impliciti a carico delle generazioni più giovani.
Ora si afferma che l’Italia ha il record internazionale dell’età di pensionamento più alta ricordando che l’anno venturo scatterà l’allineamento a 66 anni e 7 mesi del requisito di vecchiaia per uomini e donne. Un allineamento previsto dalla riforma del 2011 che semplicemente allinea le donne del settore privato a quelle del pubblico impiego, la cui età di ritiro è già da anni uguale a quella dei colleghi maschi non perché l’ha voluto il nostro governo ma perché ce lo ha imposto una sentenza della Corte di giustizia europea in materia di parità di genere.
Basta dare uno sguardo alle statistiche Ocse sui sistemi pensionistici (anni di riferimento 2009-2014) per scoprire che non è vero che il record è nostro. Innanzitutto conta l’età effettiva di pensionamento e non quella legale, visto che ovunque sono previste deroghe o forme di flessibilità che consentono ritiri dal mercato del lavoro prima dell’età legale di vecchiaia. Ebbene l’Italia è battuta nella classifica dei ritiri ad età più avanzata da diversi paesi del nord Europa, senza andare a comparazioni più impegnative con la Corea del Sud o il Giappone.