Per una volta siamo fortunati: l’Italia è uno dei pochi Paesi nei quali è possibile analizzare con rigore cosa significa avere donne ai vertici. Questo grazie alla legge Golfo-Mosca che nel 2011 ha introdotto quote di rappresentanza di genere per i consigli di amministrazione e i collegi sindacali delle società quotate in Borsa e delle società a controllo pubblico. Una legge simile prima dell’Italia esisteva solo in Norvegia, Paese caratterizzato da una parità di genere decisamente più accentuata della nostra. Le quote italiane sono temporanee e graduali, fissate al 20% per la prima elezione dei board successiva all’agosto 2012 e al 33% per le due successive. Dopo aver raccolto manualmente i curricula dei 4.627 membri dei Cda e collegi sindacali, uomini e donne, nel periodo 2007-2014 per le società quotate italiane, l’analisi confronta per ogni azienda – prima e dopo le quote – le caratteristiche individuali quali genere, età, livello e campo di istruzione. L’introduzione di quote di genere non solo fa aumentare il numero di donne nei board (anche al di sopra della soglia richiesta nel primo rinnovo pari al 20%), ma aumenta il livello di istruzione di tutti i membri e riduce l’età. ….. Gli effetti si vedono è nella performance dei mercati finanziari: le quote riducono la volatilità dei prezzi delle azioni sul mercato e le elezioni con quote sono associate a rendimenti migliori del titolo sui mercati finanziari. Meno rischi, dunque: i dati danno ragione a Christine Lagarde.
Tanti altri aspetti devono ancora essere analizzati. Per esempio, la presenza di donne ai vertici riuscirà a trainare la parità di genere a tutti i livelli? Le donne nei board saranno role model capaci di modificare, almeno in parte, gli stereotipi che ancora dominano la nostra cultura di genere?