Nella cosiddetta Prima Repubblica, era in voga un abusato refrain: quando la questione da trattare era politicamente controversa, si istituiva una commissione. Non sembra sia andata diversamente nella Seconda Repubblica: il lavoro di commissioni e commissari stenta a trovare riscontro oggettivo nelle decisioni di politica economica. È innegabile che, soprattutto negli anni della grande crisi, si sia operato uno sforzo importante di contenimento della spesa pubblica. E tuttavia, se si guarda ai risultati, la “spending review”, intesa come accurata selezione e razionalizzazione strutturale della spesa, a dispetto dei vari commissari che si sono alternati a palazzo Chigi, non è ancora decollata a pieno. Con la recente riforma del Bilancio, il processo strutturale di revisione della spesa è stato incardinato nella fase di formazione dei saldi di finanza pubblica.
È sufficiente? Certamente no, perché l’azione di contenimento della spesa è operazione politica a tutto tondo, e dunque è qui che bisogna andare a ricercare la risposta al seguente quesito: la politica, intesa in senso lato, ha acquisito coscienza che solo attraverso la riorganizzazione della macchina pubblica si può puntare nel medio periodo al recupero di efficienza della spesa, aprendo con ciò gli spazi per finanziare la riduzione della pressione fiscale?
Se si guarda alle mirabolanti promesse di questa campagna elettorale, la conclusione non è incoraggiante. Ma anche laddove questa consapevolezza si facesse strada, esistono spazi reali di intervento?
Ci soccorre la ferrea logica dei numeri. Le stime più recenti, contenute nella Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza , fissano a quota 843,5 miliardi il totale della spesa nel 2017. Per focalizzare l’attenzione su dove e come intervenire, occorre però escludere dal calcolo gli interessi passivi che servono a finanziare il debito (65,8 miliardi), e concentrarsi sul totale della spesa al netto di questa fondamentale componente, vale a dire sui 777,7 miliardi del totale delle spese finali.