Quanto vale l’ecosistema italiano delle startup? Sappiamo che è piccolo, anzi che è più piccolo di altri Paesi europei, che sconta peccati originali importanti, ritardi nelle infrastrutture tecnologiche e deficit culturali nel nostro modo di pensare l’impresa. Un numero in grado di sintetizzare la “scena startuppara” italiana insomma finora non c’è mai stato. Per ovviare al problema che non è solo un’esigenza di carattere quantitativo, Aifi, l’associazione italiana del private Equity, venture capital e private debt e l’Università Carlo Cattaneo, su un’idea de Il Sole 24 Ore, lanciano oggi Capital Venture Monitor, il primo indice analizzare le determinanti del venture capital e quindi avere una panoramica di tutto il mercato.
«L’esigenza è anticipare quelle che saranno le tendenze del venture capital e dare un quadro ai policy maker anche sull’efficacia delle misure a favore dell’innovazione», spiega Anna Gervasoni, direttore generale di Aifi.
L’indice in realtà misura, come dire, la vivacità dell’ecosistema. Tecnicamente è stato “disegnato” per tenere conto di quattro variabili: andamento del segmento del venture capital, evoluzione del contesto scientifico-tecnologico, di quello universitario e del mercato italiano digitale. Il peso maggiore (50%) è dedicato agli investimenti di capitale di rischio, seguito dal contesto scientifico. Che vuol dire numero di brevetti, spesa per la ricerca scientifica e tecnologica di base e applicata e accesso ad internet e numero delle startup innovative. Per il 10% contribuiscono i parametri legati al numero di progetti finalisti alle fasi finali di PNI e ai laureati in Italia (Università). E per un altro 10% viene preso in esame il fatturato del commercio elettronico e un indicatore che misura il grado di competenze digitali degli utenti internet.
Si può discutere se i brevetti siano o meno un indicatore del grado di innovazione di un Paese, tuttavia è innegabile che l’insieme di questi elementi aiutano a definire il contesto dentro alla quale nascono e si sviluppano le startup. Il risultato per ora è un numero, 107 relativo al 2016 (il 2015 fa base 100). Siamo in presenza quindi di un netto miglioramento dovuta principalmente all’aumento dei valori relativi al mercato del venture capital. Il numero, spiegano dall’Aifi, poteva essere più alto ma sconta una leggera contrazione nella spesa per la ricerca scientifica e tecnologica e nel settore digitale. Verrà aggiornato ogni anno.
«L’Italia – osserva la Gervasoni- ha un elevato potenziale di innovazione e una buona capacità di ricerca, abbiamo fino a poco tempo fa investito poche risorse sul cosiddetto technology transfer che è l’anello di congiunzione tra ricerca e impresa. Ora l’attenzione delle istituzioni c’è – sottolinea – e si stanno sviluppando interessanti esempi di uffici di technology transfer spesso collegati ai sistemi universitari italiani di eccellenza che sono attivi i in Italia e ben posizionati a livello internazionale in termini di risultati di ricerca». Il che, insomma, fa ben sperare.