Giocare a un videogioco violento ha un in’influenza diretta sull’aggressività? La domanda vale parecchio, qualche miliardo di dollari almeno nei soli Stati Uniti. Nel 2016 negli Usa sono stati spesi oltre 30 miliardi di dollari per l’acquisto di videogiochi. Secondo i dati di un paio di anni prima, che restano comunque validi nel dare lo spaccato delle tipologie di gioco più utilizzate, oltre il 28% dei videogiochi venduti negli Usa riguardano titoli di azione. Gli sparatutto sono al secondo posto con il 21,7%, seguiti dai giochi di sport (13%). I videogiochi a contenuto almeno potenzialmente violento sono, quindi almeno il 20% che sale a poco meno della metà se mettiamo dentro anche quelli di azione.
Questi elementi chiariscono quanti e quanto pesanti possano essere gli interessi in gioco nella definizione della “pericolosità” o meno dei videogiochi violenti. Le posizioni, su questo tema, sono da sempre rigidissime e molto polarizzate. Negli Stati Uniti alcuni opinionisti televisivi si sono fatti un nome trattando soltanto i rischi connessi alla violenza nei videogiochi; alcuni politici anche di diversi schieramenti hanno fatto delle proposte di interventi di gestione diretta dei contenuti dei videogiochi i cavalli di battaglia delle loro campagne elettorali, proposte che andavano dalla introduzione di avvertenze alla censura vera e propria. Sull’altro fronte, le aziende produttrici di videogiochi e i consumatori si sono mossi a favore della libertà di creazione e di fruizione. Nella letteratura scientifica, si riscontra lo stesso aspro conflitto.
Se vogliamo evitare le polarizzazioni, possiamo partire da alcuni semplici concetti che andrebbero chiariti: cos’è violento in un videogioco? Se con il termine violenza intendiamo “nuocere a qualcuno”, la maggior parte dei titoli in commercio rientra in questa definizione:
Pacman, per esempio, deve fuggire per non essere divorato dai fantasmini che si muovono nel suo labirinto e
Supermario deve sconfiggere i diversi avversari che incontra sul suo cammino. Ma qui c’è l’ambientazione fantastica, cosa che manca per esempio in uno dei titoli più discussi e di maggior successo degli ultimi anni, come la serie di
Grand Theft Auto, uno tra i videogiochi considerati più violenti in commercio e vietato ai minori di 18 anni (tra l’altro, diciamolo: se i limiti di età indicati dai produttori fossero rispettati, la maggior parte dei problemi legati a questo discorso sarebbero azzerati). La conclusione quindi sarebbe: se il gioco ha un’ambientazione realistica e non fantastica, c
ome nel caso di Grand Theft Auto, pone il problema dell’aggressività, tramite l’identificazione, altrimenti no. Questo, secondo i critici, avrebbe a che fare con la capacità immersiva dell’ambientazione realistica. In realtà gli studi sul tema hanno mostrato che per quanto un gioco possa essere coinvolgente e immersivo, i giocatori sanno sempre che stanno giocando e che quella che vivono non è la realtà.
Un filone di ricerche ritiene che i videogiochi violenti possano in qualche modo favorire l’imitazione e quindi il comportamento analogo, ma ad oggi nessuno studio è riuscito a dimostrare questa come una relazione di causa-effetto (
qui, per esempio, un ampio studio pubblicato di recente). Ancora, alcuni studiosi si sono concentrati sull’attivazione psicofisiologica dei giocatori (aumento della pressione sanguigna, della sudorazione e uno stato di attivazione e allerta generale) che si protrarrebbe oltre il normale periodo del gioco portando questa sorta di “eccitazione negativa” nel mondo reale, ma questa conclusione è ancora molto dibattuta. Sul fronte opposto, c’è un filone sempre più consistente di ricerche che sostiene che i videogiochi violenti aiuterebbero a ridurre l’aggressività nella vita quotidiana, in una sorta di effetto catartico.
E’ chiaro quindi che la ricerca ha bisogno ancora di tempo per trovare confini, condizioni e parametri condivisi. E, soprattutto, per uscire dalla sterile polarizzazione delle opinioni. Il comportamento umano, e quindi il comportamento aggressivo, vanno studiati nella loro complessità e non si prestano a semplificazioni. Personalità, contesto sociale e familiare, genetica, sono tutti fattori che influenzano le azioni aggressive. Ad oggi gli studi non ci permettono di escludere una influenza diretta dei videogiochi violenti sulla formazione di pensieri aggressivi o di comportamenti aggressivi. Ma non ci permettono neanche di stabilire una correlazione certa (se non addirittura una relazione diretta). La domanda iniziale, quindi, non può avere una risposta definitiva.
A domande più circoscritte, però, possiamo rispondere: per esempio, un gioco come GTA va bene per un ragazzino di 11 anni? La risposta è semplice: no. Perché in quel caso, come in molti altri, il contenuto violento è stato giudicato non adatto ai minori di 18 anni. Quindi, un primo semplice elemento per il nostro quotidiano è: rispettiamo i limiti di età che ogni videogioco espone in copertina. Poi da qui possiamo partire con domande più complesse.