Il nome è evocativo ma la missione dei fondatori di Robinhood Market non è ovviamente quella di rubare ai ricchi per dare ai poveri. Resta il fatto che questa startup nata nel 2013 a Palo Alto, in Silicon Valley, per operare con un’app che azzera le commissioni sulle operazioni di compravendita di azioni e delle principali criptovalute (Bitcoin ed Ethereum) ha fatto il salto. La chiusura imminente di un nuovo round Series D da 350 milioni di dollari, a firma di Dst Global, il venture capital del miliardario russo Yuri Milner, porterà infatti il valore della società a 5,6 miliardi di dollari, quadruplicando la valutazione raggiunta l’aprile scorso al termine del penultimo fundraising. Ma non solo. Robinhood ha concretizzato di recente anche altre manifestazioni di interesse da parte di altri investitori, come Greylock Partners, arricchendo una lista di soggetti (da Google Ventures ad Andreessen Horowitz fino a gruppi del mondo dello spettacolo come i Linkin Park) che hanno portato finora nelle casse della società oltre 520 milioni di dollari di finanziamenti.
Come sono riusciti i due founder della startup, Vlad Tenev e Baiju Bhatt, a convincere circa quattro milioni di utenti, soprattutto giovani fra i 18 e i 35 anni, ad utilizzare la loro piattaforma? Con la facilità d’uso e, per l’appunto, l’assenza di commissioni (per l’acquisto di Bitcoin in Europa, per esempio, si paga di norma dall’1,49% al 3,99%). L’obiettivo della startup, ora, è quello di allargare il più possibile la base utenti e puntare nel breve termine ad ampliare il servizio ad altre criptovalute, proponendosi come unica porta di accesso alla compravendita di diverse monete digitali e monetizzando nel contempo le versioni a pagamento della piattaforma e il fee sui depositi “parcheggiati” dai clienti nell’app in attesa di essere investiti.
La brusca frenata dei Bitcoin non ha raffreddato dunque gli investitori istituzionali, tanto che nei primi due mesi del 2018, stando a un report elaborato da CrunchBase, i fondi di venture capital hanno distribuito su scala globale circa 400 milioni di dollari in startup attive sulla tecnologia blockchain e sulle criptovalute, con una crescita del 40% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Circa una sessantina i deal conclusi, con gli Stati Uniti davanti a tutti nell’attrarre i capitali, con una fetta del 38% degli investimenti. Il vero boom dei finanziamenti alle nuove imprese della blockchain è però arrivato dalle Ico. Stando alle rilevazioni di Cb Insights, infatti, nel quarto trimestre del 2017 le operazioni chiuse attraverso l’offerta di “gettoni” digitali (i token) sono stati oltre 500, per un controvalore di circa 2,8 miliardi di dollari, una cifra sette volte superiore al capitale investito in equity nello stesso periodo. Nell’arco dei dodici mesi, invece, il rapporto è stato di uno a cinque a favore delle Ico, che hanno raccolto l’equivalente di oltre cinque miliardi di dollari (in quasi 800 operazioni), mentre i finanziamenti azionari sono arrivati a circa un miliardo (in 215 deal). Il fenomeno sta interessando grossi calibri come Sequoia Capital e Mangrove Capital e new entry come Blockchain Capital mentre a livello geografico, dietro gli Usa, i Paesi più attivi sono Lituania, Lettonia, Estonia, Svizzera e Giappone.
E l’Italia? A scommettere sulle Ico c’è la prima startup della Penisola, Iconium (fondata da Fabio Pezzotti e Domenico Laudonia), dedicata agli investimenti legati ai token. Costituita da poche settimane, ha recentemente deliberato un aumento di capitale da cinque milioni da destinare a iniziative in ambito blockchain e criptovalute in tutto il mondo. Il taglio medio di investimento, confermano i portavoce, sarà tra i 200mila e i 400 mila euro per Ico; la prima operazione completata, a gennaio, ha interessato Charity Star, piattaforma attraverso la quale i personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport possono aiutare una causa non-profit. L’iniziativa ha raccolto l’equivalente, in Aidcoin, di 16 milioni di dollari da tutto il mondo.