La polemica non è proprio nuova di zecca, ma a quanto pare cova sempre sotto la superficie e perché riemerga basta poco. Questa volta la scintilla è stata il risultato del Movimento 5 Stelle alle elezioni: sotto la lente d’ingrandimento è tornato il curriculum di diversi dei suoi esponenti, a cominciare da Luigi di Maio, accusati di avere uno scarso livello di istruzione. Quando viene messo in discussione il valore dello studio, una risposta frequente è tutto sommato non è che poi la laurea sia così importante – e anche questa volta è andata così.
Ma al di là della polemica politica quotidiana, che come sempre capita si accende oggi per spegnersi domani, porsi la questione resta del tutto legittimo. Alle persone comuni la laurea serve oppure no? A domanda secca, in base ai dati disponibili l’unica risposta possibile è: sì, quel titolo rappresenta spesso un punto di forza fondamentale. Già solo guardando al numero di persone che hanno un lavoro il vantaggio di un’istruzione più approfondita non potrebbe essere più evidente. La differenza fra trovare un impiego o meno passa in buona parte da qui, e infatti chi si è fermato a livelli precedenti di studio risulta senza lavoro con estrema frequenza.
Anche solo fra diplomati e laureati, raccontano i dati Istat del 2017, nel tasso di occupazione passa una differenza di 14 punti percentuali – centinaia di migliaia di posti di lavoro in più. Se poi andiamo a guardare a chi ha la licenza media o ancora meno il quadro diventa ancora più grave, e spesso lavora metà delle persone che ne avrebbero la possibilità e – al sud – anche molto meno.
Anche da un punto di vista geografico studiare fa la differenza. Certo la situazione del lavoro nel meridione resta ancora oggi difficilissima, ma senza una laurea lo diventa ancora di più. Quale che sia la situazione di partenza, essa rappresenta sempre un vantaggio non da poco.
Rispetto ai diplomati (o meno), i laureati hanno anche retto meglio l’impatto della crisi. Con la recessione la fetta di persone occupate è calata un po’ ovunque, è vero, ma per chi aveva almeno questo titolo la perdita è stata minore. In più per i laureati la ripresa è stata decisamente più rapida, e anzi il nord sembra tornato praticamente ai livelli pre-crisi.
Alle persone con gli altri titoli di studio, d’altra parte, per tornare anche solo dov’erano una decina di anni fa manca ancora parecchio.
Dove la situazione appare più sfumata è nel caso dei giovani. Fra chi ha da 25 a 34 anni, e non da oggi, la differenza fra laureati e diplomati risulta molto piccola. C’è addirittura stato un periodo, intorno alla metà degli anni 2000, in cui i secondi avevano un lavoro appena più spesso dei primi. Di recente però il tasso di occupazione dei laureati è risalito piuttosto in fretta, superando quello dei diplomati che invece è piatto da alcuni anni.
Questo però non vuol dire che i vantaggi della laurea non ci siano: solo che perché si sviluppino ci vuole del tempo. E in effetti già passando alla classe di età seguente – cioè di chi ha almeno 35 anni – la percentuale di lavoratori laureati diventa ben superiore. Questo è un problema soprattutto per le famiglie povere, che in genere hanno meno possibilità di investire in questo titolo di studio e sulle quali comunque l’attesa che il titolo dia i suoi frutti diventa più gravosa.
Le radici di questa lentezza, nel passaggio dalla laurea al lavoro, possono essere diverse. Da un lato il problema potrebbe stare nell’università stessa, in cui quanto viene studiato non per forza combacia con quanto serve alle imprese. È anche possibile che parte della difficoltà risieda nelle scelte degli studenti stessi, che a monte possono dirigersi verso corsi di laurea meno appetibili per le aziende e il lavoro concreto. Oppure potrebbero essere le imprese stesse a non far tesoro delle competenze dei laureati, preferendo concentrarsi sul lavoro a basso costo piuttosto che su quello qualificato.
Resta però una domanda: come mai allora in Italia ci sono meno laureati che altrove? E da dove arriva la sfiducia verso l’istruzione? Per capire una delle possibili ragioni, può tornare utile pensare alla laurea come se fosse un investimento qualunque: una casa, un macchinario, una nuova attrezzatura, un’auto. Studiare non è gratis, anzi, e perché la laurea convenga deve generare un ritorno decente rispetto al capitale investito.
Troviamo così che comunque la laurea resta un investimento di tutto rispetto, anche se in diversi casi con risultati inferiori rispetto agli altri paesi sviluppati – e forse è questo il motivo che spiega la differenza fra l’Italia e il resto del gruppo.
L’OCSE, per esempio, ha provato a stimare proprio questo rendimento per numerose nazioni, trovando che rispetto al solo diploma esiste un vantaggio, ma nel caso delle donne è minore che altrove. Sempre l’organizzazione parigina ha mostrato che i salari dei laureati sono sì superiori, ma sempre meno della media.
Un vantaggio più piccolo, magari, ma pur sempre non una cosa da poco: e come che sia non esiste la minima evidenza che studiare sia inutile – su questo non c’è alcun dubbio.