Indica un intervallo di date:
  • Dal Al
politica

Il nuovo governo M5s e Lega alla prova dei numeri. Come si misura un esecutivo?

Ora che è nel pieno delle sue funzioni, dopo il voto gemello di fiducia in Camera e Senato, è arrivato il momento in cui cominciare a valutare l’attività del nuovo governo. Per farlo conviene andare al di là di programmi, promesse elettorali o pregiudizi, e concentrarsi invece soltanto sui fatti. Per esempio prendere qualche indicatore significativo e seguirne le tracce per i prossimi tempi, così da cercare di capire se le politiche hanno avuto effetti positivi o meno.

Raccontata così sembra semplice, ma in realtà non lo è affatto. Quali numeri considerare, e come? Dal punto di vista della stabilità dell’Italia è difficile trovare un indicatore più importante della crescita del PIL reale, ovvero al netto dell’inflazione. In questo sono ormai molti gli anni in cui il risultato dell’Italia è deludente, anche se solo confrontato con il resto della zona euro. A prescindere dal colore del governo, mostrano i dati Eurostat, dal 2006 in avanti non c’è stato un solo anno in cui siamo almeno rimasti nella media. Quando gli altri tiravano noi andavamo più lenti; durante la recessione siamo caduti più in basso e così via.

Considerati i precedenti, meglio non puntare troppo in alto: una crescita che anche solo segue alla pari il passo del resto d’Europa non sarebbe da buttare.

Dal punto di vista individuale, più che dell’Italia come intero paese, un indicatore che è impossibile trascurare riguarda il numero di persone che hanno un lavoro. Facendo anche in questo caso un confronto con l’area euro troviamo un altro dei problemi strutturali del nostro paese: il nostro mercato del lavoro tende a funzionare meno bene che nel resto del continente, e lascia fuori molti più lavoratori e lavoratrici. Invece che ridursi, negli anni il distacco con il resto del continente è aumentato: era di poco più di sei punti percentuali nel 2006, per arrivare a otto e mezzo un decennio dopo, nel 2017.

Non si tratta nemmeno del caso peggiore. Il lavoro delle donne, per parte sua, sconta un ritardo ancora maggiore; con una differenza nel tasso di occupazione delle 15-64enni che supera i dodici punti percentuali: un’enormità dovuta in particolare alla situazione del meridione dove non hanno un impiego due donne ogni tre.

Confrontare i nostri numeri con la media della zona euro, sotto questi due aspetti, magari aiuta un po’ a separare i nostri meriti dalla corrente dentro cui ci troviamo – la congiuntura internazionale –. che a seconda dei casi può spingerci in avanti o risucchiarci in basso anche se non facciamo niente di particolare. Un contesto fortunato, per esempio, può portare un paese a crescere persino se le sue politiche sono mediocri; e al contrario un periodo di recessione internazionale può raffreddare, in qualche misura, anche un motore ben oliato.

Certo, spiega l’economista Francesco Lippi dell’università di Sassari, “la crescita del PIL dipende da moltissimi fattori che l’Italia non controlla: il ciclo internazionale, le politiche fatte nel passato, il business cycle. Quest’ultimo, poi, nessuno sa quanto dipenda da shock di domanda o di offerta, ma inevitabilmente c’è. Secondo il governatore della banca d’Italia il governo parte con un ciclo buono, il migliore degli ultimi dieci anni. Merito suo? E lo stesso vale per disoccupazione, parità di genere, tutte cose cicliche e che si muovono con grande lentezza. Ancora peggio il debito di cui ereditiamo lo stock e il cui servizio dipende in larga parte dallo storico. Se un governo stesse in carica una decina d’anni allora forse le cose cambierebbero, perché su questo arco di tempo contano meno i cicli e rimangono le politiche, ma in generale è difficile fare questi esercizi a naso con qualche indicatore”.

Questo però non significa affatto che i numeri non contino, anzi: secondo Lippi “la più che ventennale cattiva crescita dell’Italia è colpa nostra, non di una sfortuna ciclica”. Né, d’altra parte, che il governo non abbia alcun effetto. “La cosa che ha senso guardare, continua l’economista, è qualche indicatore sotto il diretto controllo del governo come l’avanzo primario; o che dipende in maniera cruciale dalle politiche presenti o attese come lo spread nei confronti di Germania e Spagna”.

Su questi due fronti la situazione resta ancora fluida, ma qualcosa è possibile cominciare a dire. Per parlare di avanzo primario – la differenza fra quanto lo stato incassa e quanto spende ogni anno, esclusi gli interessi sul debito pubblico – bisognerà aspettare di leggere i numeri del governo fra qualche tempo, per avere un’idea precisa di quanto esso prevede di spendere e con quali coperture.

Dal lato dello spread con la Germania arrivano invece già segnali forti, con l’indicatore che di recente è tornato sotto il picco di 300 punti base raggiunto durante le consultazioni e il rifiuto di Mattarella di nominare Paolo Savona ministro dell’economia. Tuttavia a governo fatto i mercati sembrano giudicarne in qualche modo credibili, fra l’altro, le promesse di un ampio ricorso al deficit, il che porterebbe a una violazione delle regole europee e a uno scontro sicuro con le sue istituzioni.

Certamente su questo fronte non aiutano neppure discussioni esplicite di monetizzazione del deficit o di minibot, ormai entrate nel mainstream ma anch’esse vietate dai trattati comunitari. L’unico modo per attuarle sarebbe uscire dall’euro, tanto che appunto lo spread con la Germania resta oltre i 250 punti base: molto al di sopra di quanto non fosse appena a inizio maggio.

Se lo spread non dovesse tornare a livelli più accettabili, nel medio periodo, si tratterebbe di un costo enorme per le casse dello stato. Secondo una simulazione realizzata lo scorso ottobre dall’ufficio parlamentare di bilancio, un organismo indipendente, una variazione di cento punti base nello spread comporterebbe un maggior esborso – quanto a interessi – di circa 1,8 miliardi di euro nel solo 2018, 4,5 nel 2019 e 6,6 nel 2020. Si tratta di stime che riprodotte oggi, diversi mesi dopo, produrrebbero valori leggermente diversi ma senz’altro utili per capire qual è l’ordine dei numeri di cui parliamo.

Secondo dati del dipartimento delle finanze l’intero bonus 80 euro è costato circa sei miliardi di euro nel 2015, per fare un paragone; e certamente questo aggravio di interessi vale molto più di quanto sia possibile risparmiare tagliando le pur eccessive – rispetto al loro livello in altre nazioni europee – spese della politica, con tutto il loro carico di prebende e privilegi. Già dai primi segnali la corsa del nuovo governo parte senz’altro in salita.