Certo non è l’unico aspetto che conta, ma sarebbe strano far finta che la laurea non serva anche a renderci la vita più facile nella ricerca di un lavoro. Già di base averla aiuta molto, perché chi ha questo titolo lavora più spesso e in generale con un reddito migliore, ma chiarito questo resta la scelta dell’ateneo. Dove studiare, allora?
Secondo le ultime rilevazioni del consorzio Alma Laurea, ottenute intervistando oltre 50mila neo-laureati nel 2017, fra le università italiane esiste un’enorme differenza quanto a risultati lavorativi – sia nella probabilità di trovare un posto che nello stipendio.
Esistono infatti atenei i cui studenti, tre anni dopo aver conseguito il titolo, hanno trovato un lavoro il 75% delle volte o anche meno; e quasi tutti si trovano nel meridione. Viceversa, gli studenti delle università del nord possono sperare di arrivare a un impiego quasi sempre oltre l’85% del tempo. Anche gli stipendi medi, d’altra parte, si orientano lungo lo stesso asse.
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Sempre usando i dati Alma Laurea, è anche possibile ricostruire il percorso dei neo-laureati in alcuni fra più frequentati atenei italiani, a mostrare la traiettoria del numero di nuovi dottori che ha trovato lavoro, e insieme quanto guadagnano in media. Nel pesare questi ultimi valori in euro, che a parte un caso partono dal 2010, bisogna ricordare che in sette anni i prezzi sono cresciuti del 7% circa , e dunque anche un reddito identico ad allora oggi a conti fatti consente di comprare meno beni e servizi di un tempo.
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Da un certo punto di vista però confrontare in questo modo le università è ingiusto: stiamo semplificando troppo un problema che, si capisce, è certamente più complicato di così. Gli atenei possono senz’altro controllare quali corsi di laurea offrire, e poi quali corsi al loro interno, oppure ancora quali professori assumere – se bravi o meno bravi. Eppure nel momento qualcuno esce per l’ultima volta dai corridoi dell’edificio, dopo la laurea, l’università non ha particolare influenza sul resto del territorio: anche se per ipotesi la qualità dell’insegnamento fosse identica, e lo studente altrettanto in gamba, un neo-laureato che cerca lavoro a Milano molto di rado troverà le stesse opportunità di uno che fa lo stesso a Napoli.
Un modo – certamente un po’ rozzo, ma in prima battuta efficace – per cercare di ovviare a questa differenza consiste nel confrontare i risultati occupazionali dei neo-laureati con quelli della provincia in cui si trova l’ateneo. Per esempio quante persone lavorano, nel complesso, a Milano, e quanto è distante questo numero dal tasso di occupazione dei neo-laureati della stessa città? Cosa succede invece se facciamo lo stesso calcolo a Napoli?
Il risultato è che anche cercando di considerare le – spesso enormi – differenze fra un luogo e l’altro, comunque la maggior parte degli atenei migliori si trova al nord. Per “migliori”, in questo caso, s’intende quelle da cui escono laureati che tendono a lavorare più spesso dell’intera popolazione locale; e viceversa sono molti gli atenei al sud dove persino in aree in cui circa un adulto su tre non ha un impiego formano studenti cui va ancora peggio.
Nel grafico, tanto più distante verso l’alto risulta un ateneo dalla linea tratteggiata, tanto maggiore è il suo “valore aggiunto” – per così dire – rispetto alla provincia in cui esso si trova. Al contrario, più un’università si muove lontano dalla linea verso il basso, più c’è qualche indizio per credere che qualcosa non va. È questo il caso di atenei come Catanzaro o Chieti e Pescara, per citarne solo un paio, dove risulta un’enorme distanza fra le condizioni del territorio e i risultati dei neo-laureati.
Nella provincia di Pescara, per esempio, lavora poco più di metà delle persone: eppure tre anni dopo aver conseguito il titolo i neo-laureati con un posto sono circa il 70%
Come succede sempre, ci sono comunque eccezioni. Fra gli atenei del centro-sud vanno probabilmente meglio di quanto ci aspetteremmo la Federico II di Napoli e soprattutto il Politecnico di Bari; la Sapienza appare sotto la media, Tor Vergata invece sopra.
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Una possibile obiezione a questo paragone è che tutto sommato le università offrono corsi di laurea diversi, e questo non può che riflettersi nei risultati lavorativi degli studenti. Se per ipotesi in un ateneo è possibile laurearsi solo in giurisprudenza – indirizzo dalle possibilità assai ridotte – e in un altro solo medicina – invece fra i migliori – non ci sarebbe poi troppo da sorprendersi che uno va molto meglio dell’altro.
Questo è magari vero dal punto di vista degli studenti, ma certamente non da quello delle università stesse. D’altronde a offrire corsi di laurea con scarse opportunità non le obbliga nessuno: si tratta di una loro scelta e che però poi ha certamente delle conseguenze, perché in questo modo le risorse economiche a esse destinate producono neo-laureati che avranno molta difficoltà a trovare un posto. Questo dunque è un paragone che serve più a valutare se, nello scegliere cosa insegnare, gli atenei servono alla fine gli interessi degli studenti oppure invece soltanto i propri.
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