L’estate 2018 non verrà ricordata solo per essere estata quella del passaggio di Cristiano Ronaldo alla Juventus.
Oltre oceano infatti è andato in scena un altro dei cambi di maglia più importanti e chiacchierati di tutta la storia della NBA: LeBron James ai Los Angeles Lakers.
È però importante sottolineare un aspetto fondamentale che differenzia il modello sportivo americano da quello europeo per quanto riguarda la gestione dei contratti.
In Europa quando un giocatore firma per un club, automaticamente la società ne detiene la proprietà per tutta la durata del contratto e, come nel caso di CR7, gli eventuali interessati devono essere disposti a pagare sia il nuovo stipendio dell’atleta sia il costo del trasferimento tra le due squadre (i cento milioni di euro versati dalla Juventus nelle casse del Real Madrid).
Nella NBA invece, una volta che un free agent si accorda con una franchigia, l’unico modo per poter cambiare squadra prima del termine del contratto, al netto di rescissione consensuale, è lo scambio con altri giocatori, a condizione che i salari coinvolti nell’operazione siano allineati a livello di volumi.
La free agency assume quindi un’importanza strategica che, soprattutto nel caso delle superstar, delinea quello che potrà essere il futuro di una squadra per gli anni a venire.
Genesi della decisione
La situazione che ha condotto LeBron James alla firma con i Lakers è quanto mai ricca di particolari visto che l’ex numero 23 dei Cavaliers aveva ancora un possibile anno di contratto con Cleveland, ma decidendo di non esercitare l’opzione sull’ultima stagione rimanente, è di fatto diventato un free agent senza restrizioni (impedendo alla squadra di poter pareggiare eventuali offerte ricevute).
Decidere di “uscire” dal contratto con un anno di anticipo non è comunque sinonimo di voler cambiare squadra per forza, ma è semplicemente un’opzione che ogni giocatore può considerare sia per testare l’interesse di altre squadre sia per poter rinegoziare con un anno di anticipo un rinnovo al rialzo con la franchigia attuale.
Quelle che si sono disputate in giugno sono state le Finals numero nove per James (delle quali otto consecutive), e per il quarto anno di fila ad aspettarlo c’erano sempre i Golden State Warriors che si sono poi imposti per la terza volta togliendosi pure lo sfizio di liquidare i Cavaliers con un sonoro 4-0.
Tra gli addetti ai lavori l’esito delle finali era tanto scontato (nonostante una gara 1 monumentale di LBJ che ha fatto vacillare ogni sorta di previsione) quanto la certezza che King James avrebbe lasciato i Cavs a fine stagione per l’evidente impossibilità di poter competere con Golden State che pare destinata ad essere considerata una sorta di favorita perenne per i prossimi titoli.
Una volta terminata la stagione, sebbene molte squadre fossero consapevoli di non avere alcuna possibilità di convincere LeBron, è scattata un’incredibile corsa al premio più ambito di tutta la free agency che, come spesso accade, innesca un domino di strategie tra squadre e giocatori, delineando così una molteplicità di scenari che comunque devono sempre rispettare il salary cap imposto dalla NBA al fine di equilibrare il campionato.
Nell’infografica che segue sono riportati gli stipendi di tutti i giocatori NBA con un minutaggio medio superiore ai 15 minuti per partita, relazionati al valore del Player Efficiency Rating ossia un valore che rappresenta il bilancio di statistiche positive e negative ripartite sul minutaggio effettivo.
In blu sono indicati le cinque super star dei Golden State Warriors, mentre con il giallo sono evidenziati LeBron James più i quattro giovani pilastri dei Los Angeles Lakers.
Nel box testuale posizionato in alto è possibile ricercare qualunque atleta nel grafico per poter evidenziarne il marker.
In aggiunta, mantenendo il raggruppamento cromatico precedente, nell’istogramma è rappresentato il valore medio di vittorie imputabili direttamente ad un giocatore su base di 48 minuti con il quale si può interagire per confrontare il valore del singolo rispetto al gruppo di riferimento.
L.A. Baby!
La strategia di appeal dei Lakers era nota a tutti: la leggenda Magic Johnson in qualità di President of Basketball Operations, la potenza commerciale-mediatica di una città come Los Angeles ed il blasone della franchigia dovevano essere i pilastri su cui costruire tutta l’operazione.
Probabilmente però c’è stato qualcosa di più che ha portato LeBron all’accordo con la città degli angeli.
Inizialmente si vociferava che i Lakers fossero tutto sommato certi che Paul George (18,7 PER) – altro nome caldissimo tra i free agent – avrebbe firmato per tornare a giocare nella sua città natale come da lui stesso dichiarato l’estate scorsa prima dello scambio che lo portò dagli Indiana Pacers agli Oklahoma City Thunder.
Con l’eventuale arrivo di George, la dirigenza gialloviola avrebbe potuto spingersi ulteriormente oltre tentando di inserirsi nei dissapori tra Kawhi Leonard (26,0 PER) e gli Spurs cercando di imbastire una trade che avrebbe fatto arrivare in California l’MVP delle Finals 2014 (vinte sempre contro James) anche a costo di scarificare almeno due dei giovani di belle speranze attualmente sotto contratto con i Lakers.
Quando tutto sembrava quasi certo, a sorpresa Paul George ha annunciato di voler ri-firmare con i Thunder andando a scombussolare in cascata i piani di più di una squadra oltre che dei soli Lakers che comunque sono riusciti a convincere King James (28,6 PER), facendolo quindi diventare il volto di una franchigia che sia per il prestigio, sia per i risultati aveva bisogno di una superstar planetaria dopo l’addio di Kobe Bryant.
In attesa di capire come evolverà la questione Leonard, in rotta con San Antonio e già convinto che nel 2019 sarà un giocatore dei Lakers come più volte ribadito, la dirigenza di Los Angeles si è mossa per completare il roster con qualche veterano di esperienza (su tutti Rajon Rondo, reduce da un’ottima post season i Pelicans) anche se non è da escludere che possa ancora accadere tutto ed il contrario di tutto durante l’estate.
Considerando che i Lakers potrebbero firmare “gratuitamente” la stella degli Spurs durante la prossima estate, pare improbabile che si materializzi uno scambio con San Antonio nel quale dovrebbero essere inseriti i giovani talenti gialloviola come contropartita.
Vanno però considerati due fattori fondamentali sia per questo scenario sia per l’intero panorama NBA.
In prima battuta, a San Antonio sono ben consapevoli che se la volontà di Leonard è davvero quella di lasciare il Texas al termine della prossima stagione, per non rimanere a mani vuote, l’unica opzione percorribile è quella di organizzare una trade cercando di massimizzare il ritorno tecnico per quello che è senza dubbio uno dei primi tre giocatori della lega se completamente sano.
E tra tutte le contropartite, quella che possono proporre da Los Angeles è sicuramente la migliore sul mercato a meno che i Boston Celtics non decidano di intromettersi ben consapevoli del rischio di perdere Leonard dopo uno solo anno a fronte della dichiarazione d’amore per la città degli angeli.
Il secondo aspetto da tenere presente è che, un po’ come Cristiano Ronaldo, pur avendo 33 anni, dal punto di vista della tenuta atletica, LeBron James è una specie di scherzo della natura ed un contratto di quattro anni proposto ad un giocatore del suo calibro può essere un segnale di progettualità nel corso del tempo senza l’obbligo di dover vincere per forza nella prossima stagione.
Detto che sarebbe alquanto strano non vedere una squadra di James durante le prossime finali NBA, la consapevolezza di poter ripresentarsi nella prossima estate come meta preferita dei free agent più interessanti, unita alla possibilità di poter proseguire con il “progetto giovani”, per quanto ipotetico possa essere come scenario, garantirebbero ai Lakers un futuro roseo con il sentore di una possibile prossima dinastia in divenire.
The rich get richer
Resta il fatto che gli inarrivabili Golden State Warriors (anche se i Rockets sono stati ad un non nulla dall’eliminarli durante le finali di conference), come se non bastasse la quantità di talento di cui già dispongono, nei primi giorni di Luglio hanno spiazzato tutti firmando DeMarcus Cousins.
L’accordo siglato con l’ormai ex centro dei New Orleans Pelicans sembra essere l’ennesimo colpo destinato a rinforzare ulteriormente una squadra già identificata come una delle più forti di sempre.
Pur considerando che Cousins ha subito un infortunio gravissimo al tendine d’Achille che in molti casi può essere sinonimo di declino improvviso, e che il giocatore non sarà disponibile prima dell’inizio del 2019, è innegabile che il valore del giocatore è di primissimo livello come dimostra il valore del suo PER pari a 22,6 fatto registrare nella passata stagione in qualità di secondo violino di lusso al fianco di Anthony Davis (28,9).
Come se non bastasse, proprio in virtù dell’incertezza che circonda la salute dell’atleta, i Warriors si sono accordati per un solo anno di contratto per soli 5,9 milioni di dollari, cifra clamorosamente lontana sia dallo stipendio della passata stagione (18 milioni) sia da quello che, in assenza di infortunio, sarebbe potuto essere il valore di Cousins, stimato attorno ai 30-35 milioni di dollari.
LeBron o Warriors?
Per gli appassionati di sport che strizzano l’occhio alle statistiche, c’è un film, Moneyball, che fonde magistralmente queste due realtà raccontando la storia vera degli Oakland Athletics, squadra della MLB, durante la stagione 2002 nella quale ottennero un risultato incredibile pur avendo affrontato la fase di mercato con un budget molto limitato.
Alla base della strategia del front office, c’era l’idea di rivoluzionare i tradizionali concetti di valutazione dei giocatori, passando ad un approccio molto più analitico ed oggettivo, basato sulle statistiche avanzate e che aveva come fine ultimo non quello di comprare degli atleti per la loro fama, bensì cercare dei giocatori che fossero garanzia numerica di vittorie.
Negli anni seguenti il concetto di vittorie direttamente imputabili ad un giocatore è diventato familiare a molti sport, pallacanestro inclusa, come dimostra il valore di Win Shares sui 48 minuti riportato nell’infografica.
Seguendo questa linea, basando l’analisi sui risultati della stagione appena conclusa, l’ipotetico nuovo quintetto dei Golden State Warriors composto da Stephen Curry (0,27 di Win Shares per 48 minuti), Klay Thompson (0,09), Draymond Green (0,13), Kevin Durant (0,22) e DeMarcus Cousins (0,13 riferito al campionato con i Pelicans) presenterebbe un valore medio pari a 0,17 vittorie a testa.
Considerando che ogni stagione NBA è composta da 82 partire, mediamente ogni titolare di Golden State, se giocasse ogni gara, porterebbe alla causa 13,94 vittorie (0,17 x 82), equivalenti a poco meno di 70 vittorie complessive generate dal solo quintetto; valore assolutamente sconvolgente.
Volendo confrontare la dinastia regnante con quella che potrebbe fiorire a Los Angeles nei prossimi anni guidata da LeBron James, per ora non ci sarebbe gara.
Il valore medio calcolato considerando James (0,22 relativo alla stagione con i Cavs) ed i quattro giovani talenti dei Lakers (Lonzo Ball, Josh Hart, Kyle Kuzma e Brandon Ingram) è pari a 0,11 ossia un centesimo sopra al valore medio di un giocatore NBA preso in esame in questa analisi.
Per il momento, come ha ribadito più volte da Magic Johnson, i Lakers pensano di essere sul sentiero giusto verso quello che sono certi sarà un grande futuro, ma sarebbe prematuro valutarli solo in base ai risultati della prossima stagione e pertanto i Golden State Warriors appaiono obiettivamente fuori portata.
Ma i Cavs di questa stagione, fatta eccezione per LeBron James, erano tanto migliori del giovane nucleo gialloviola?
Probabilmente no, ma nonostante tutto sono riusciti ad arrivare a giocarsi le Finals trascinati dal vero ago della bilancia rappresentato proprio da LBJ.
E, sebbene alcuni colpi siano già stati fatti, il mercato estivo è tutt’altro che concluso, specialmente se si dovesse muovere qualcosa dalle parti di San Antonio.
Il nuovo copione hollywoodiano aspetta solo di essere scritto.