Se ben progettata, la scuola può essere uno degli strumenti più potenti per favorire la mobilità sociale – dunque fare in modo che anche chi nasce in una situazione meno fortunata riesca ad avere accesso a un’istruzione di qualità, e poi a un lavoro che consente di esprimere al meglio il proprio talento.
Questo però succede soltanto, appunto, quando la scuola lo rende possibile. Non è il caso dell’Italia, che secondo un recente rapporto dell’OCSE va molto male quanto a “mobilità educativa”, non solo al di sotto della media dei paesi sviluppati ma quasi al fondo dell’intero gruppo analizzato dall’organizzazione parigina.
Molti dei problemi di equità dell’istruzione italiana vengono ben evidenziati dalle prove INVALSI, una serie di test condotti sui ragazzi da sette a quindici anni per verificarne, fra l’altro, le competenze in italiano e matematica.
I risultati delle prove mostrano che esiste un’enorme variabilità, con studenti che vanno molto bene e altri molto male. Da un certo punto di vista questo non è strano, s’intende, perché anche in un sistema educativo ideale troveremmo studenti portati e altri magari un po’ meno. Quello che le analisi dell’INVALSI consentono di capire però è quanta di questa diversità di risultati dipende dai ragazzi, e quanta invece si deve agli insegnanti e alla scuola.
Non a caso nel rapporto relativo ai risultati dell’anno scolastico appena concluso leggiamo che “è importante scomporre la variabilità complessiva dei risultati nelle sue tre componenti, quella dovuta a differenze tra le scuole, quella dovuta a differenze tra le classi dentro le scuole e quella dovuta a differenze tra gli alunni dentro le classi, poiché tale scomposizione ci dà un’informazione sull’equità del sistema scolastico. La variabilità tra scuole fornisce una misura di quanto esse differiscono in termini di risultati medi raggiunti. Quanto più essa è elevata, tanto maggiore è il divario dei risultati tra un’istituzione scolastica e l’altra. Fatte le debite modifiche, nello stesso modo può essere interpretata la variabilità tra classi, mentre quella interna alle classi è rappresentativa delle differenze nei livelli di apprendimento che si riscontrano tra gli alunni. Quando la variabilità tra scuole e tra classi supera una soglia fisiologica, ciò significa che il sistema educativo non assicura a tutti uguali opportunità”.
Cosa succede allora se facciamo questa prova? Viene fuori intanto che la variabilità fra scuole e fra classi risulta molto maggiore al sud e nelle isole. Questo significa che il sistema scolastico nel mezzogiorno è dunque “non solo meno efficace ma anche meno capace di assicurare agli alunni le stesse opportunità educative”. Al contrario, nel resto d’Italia e soprattutto nel nord-est il sistema educativo appare più equo, nel senso che offre opportunità simili agli studenti e discrimina meno coloro che provengono da circostanze sfortunate – come famiglie di origine povere.
All’interno delle prove, i diversi studenti sono stati raggruppati per età: quelli del grado 2 sono i bambini di sette anni che frequentano la seconda primaria; al grado 5 corrispondono i decenni della quinta primaria; al grado 8 i tredicenni dell’ultimo anno della scuola secondaria di primo grado; e infine al grado 10 i quindicenni del secondo anno della scuola secondaria di secondo grado – in sostanza, la vecchia seconda superiore prima di un’improvvisa invasione di burocratese.
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La variabilità di risultati appare ancora più evidente nell’insegnamento dell’inglese, disciplina in cui quest’anno per la prima volta sono stati condotti dei test. Questo è vero in particolare per la prova di ascolto (“listening”), fatto che secondo il rapporto “può avere diverse spiegazioni, come ad esempio una diversa qualità d’insegnamento da una scuola all’altra o anche un accesso differenziato a opportunità d’apprendimento della lingua inglese al di fuori del sistema formale d’istruzione”.
L’ipotesi qui è che alcuni studenti sopperiscano ai limiti dell’educazione classica in inglese attraverso lezioni private. Ma anche questo, naturalmente, avvantaggia le famiglie più abbienti che possono permetterselo.
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Al netto della bravura dei singoli studenti, anche la loro famiglia di provenienza conta moltissimo. E questa è una delle ragioni per cui una scuola ben fatta dovrebbe cercare di “riequilibrare” situazioni di partenza tanto diverse. Non si tratta solo di una vuota teoria, ma di risultati messi in evidenza attraverso le analisi degli stessi test INVALSI, che tra l’altro hanno identificato anche le condizioni familiari degli alunni dal punto di vista economico, sociale e culturale.
In questo modo i ricercatori hanno costruito un indice che sintetizza la professione dei genitori, il loro livello di istruzione, i beni e le risorse educative e culturali di cui il ragazzo o la ragazza dispongono a casa. E hanno trovato che questo indicatore “influisce sui risultati nelle prove per tutto il corso degli studi”.
Il punto nodale che in Italia cristallizza, conserva e perpetua le differenze di estrazione sociale arriva soprattutto al momento della scelta della scuola superiore. Qui troviamo la classica ripartizione fra licei, istituti tecnici e professionali, e un altrettanto rigido percorso secondo cui i figli delle famiglie benestanti tenderanno a dirigersi più spesso verso i primi, chi invece arriva da un contesto povero verso gli ultimi. D’altronde “a parità di risultati scolastici, in particolare quando questi non sono brillanti, uno studente con uno status sociale elevato sceglie più facilmente una scuola di tipo liceale rispetto a uno studente di condizione familiare più modesta”.
Al quadro va aggiunto che gli studenti liceali, secondo le rilevazioni Alma Diploma, sono anche coloro che di gran lunga tenderanno poi a iscriversi all’università. Con una laurea, in media, lavoreranno più di frequente e con uno stipendio migliore degli altri, allargando così ancora il solco verso i loro compagni nati in situazioni meno fortunate.
Perché tutto questo è importante? “Un’alta variabilità tra scuole e classi, chiariscono i ricercatori, è il segno di un disequilibrio nella ripartizione tra studenti e della tendenza di quelli più capaci e più favoriti socialmente a raggrupparsi in certe scuole e classi, e di quelli più deboli economicamente e culturalmente a concentrarsi in altre”. Un effetto fondamentale, in quanto “l’apprendimento di uno studente non è influenzato solo dalle sue caratteristiche personali ma anche, in una qualche misura, da quelle dei compagni con i quali si trova a interagire. Questo implica che il progresso di un alunno sarà tanto minore quanto più il livello medio del gruppo del quale fa parte è basso e omogeneo. Inoltre, se l’effetto di contesto è, in termini diretti, un effetto dei compagni, esso comporta anche tutta una serie di effetti indiretti: ad esempio, gli insegnanti agiscono in modo diverso a seconda degli alunni che hanno di fronte, adeguando ad essi, in maniera più o meno consapevole, i propri comportamenti e le proprie metodologie d’insegnamento come pure i criteri di valutazione. Ma anche molti altri aspetti della gestione e dell’organizzazione delle scuole sono condizionati dalle caratteristiche degli alunni reclutati da ciascuna, in primis la qualità e la stabilità del corpo docente”.