Nel suo “Atlas of the World’s languages in danger”, una sorta di atlante delle lingue a rischio estinzione, Unesco ne censisce 29 in tutta la penisola. Ce ne sarebbero altri tre, parlati nelle valli alpine e con affinità al tedesco, per i quali però l’agenzia Onu non è in grado di stimare il numero di persone che li parlino.
Tanti, per un singolo Paese, ma davvero pochi se raffrontati alle oltre 2.700 parlate che rischiano di essere dimenticate. Ma soprattutto, i dialetti italiani sono tra le lingue a rischio estinzione più parlate nel mondo. Utilizzando i dati Unesco, pubblicati sul portale data.world, Infodata ha costruito questa mappa:
Più un punto è grande, maggiore è il numero di persone che, secondo Unesco, si esprimono utilizzando quella lingua. Il colore, invece, funziona “al contrario”. Nel senso che più è scuro, minori sono i parlanti. E, di conseguenza, più alto il rischio di estinzione.
Il colpo d’occhio sulla mappa dice innanzitutto di come l’Europa sia il continente in cui un’alta concentrazione di lingue a rischio di estinzione si accompagna ad un maggior numero di soggetti che queste lingue utilizzano per comunicare. Circostanza che non si verifica, ad esempio, tra Indonesia e Papua Nuova Guinea, o nell’Africa sub-sahariana. Oppure in Brasile o lungo la costa occidentale degli Stati Uniti d’America. In altre parole, i dialetti europei sarebbero meno a rischio estinzione.
Come detto, però, è l’Italia a fare la parte del leone. Tre delle dieci lingue a rischio estinzione più parlate nel mondo, infatti, su utilizzano nel nostro Paese. Quattro se si aggiunge anche il Romani, parlato però dai Rom sparsi per tutta l’Europa. Il dialetto più diffuso è parlato addirittura da 7,5 milioni di persone. Che, per dire, sono due volte e mezza gli abitanti della Danimarca. Anche se occorre una precisazione. Questa lingua è quella che Unesco definisce “South Italian” o altrimenti “Neapolitan”.
Un idioma parlato non solo in Campania, e probabilmente già qui salernitani e avelinnesi avrebbero da rimarcare delle differenze rispetto al dialetto di Napoli, ma secondo Unesco anche nel sud del Lazio, nelle Marche, in Abruzzo, in Basilicata, nel Nord della Calabria e nella parte centrale della Puglia. Ed anche in uno spicchio di Umbria. Nel Paese dei cento campanili, dove basta spostarsi da un lato a un altro di una valle per apprezzare differenze linguistiche, quella dell’Unesco è però una semplificazione che, per usare un eufemismo, si potrebbe definire eccessiva.
E lo stesso vale per il “Sicilian”, lingua parlata da 5 milioni di persone tra la Trinacria e le zone meridionali di Calabria e Puglia. Oltre che, aggiunge l’agenzia Onu, in diverse comunità di emigrati sparse per il mondo. Discorso identico per il “Lombard”, utilizzato da tre milioni di persone oltre che in Lombardia anche in provincia di Novara, nel canton Ticino e in alcune zone dei Grigioni.
Ma tant’è, i dati sono questi. Numeri che certificano, sempre in Italia, due milioni di persone che parlano l’emiliano-romagnolo, il piemontese ed il veneto, più un milione di individui che utilizza il dialetto ligure. E così a scendere, fino ad arrivare alle 200 persone che parlano Töitschu. Una lingua parlata nella comunità di origine valser di Issime, nella valle del Lys, in Val d’Aosta. E che si distingue da quello parlato a Gressoney. Beninteso, sia Gressoney-Saint-Jean che Gressoney-La-Trinité. Circostanza che porta gli standard di distinzione linguistica di Unesco quantomeno al livello di quelli italiani.