A parlare di poveri o ricchi, di uguali e disuguali, guardando solo all’oggi si rischia di vedere solo l’albero ma mancare la foresta. Anche se ne abbiamo avuto uno sotto gli occhi – la crisi economica – è raro che persino i grandi cambiamenti abbiano un grosso impatto da un anno all’altro. Eppure la nostra vita quotidiana è completamente diversa anche solo rispetto a qualche generazione fa.
Quanto sono cambiate allora le cose, esattamente? Fare paragoni fra periodi tanto diversi non è semplice, ma per dare un’idea di massima le stime più affidabili – il Maddison Project dell’università di Groningen – ci dicono che grosso modo gli italiani intorno alla metà dell’ottocento avevano un tenore di vita inferiore anche rispetto a quello degli afghani di oggi. E per di più quel poco di benessere che c’era apparteneva a pochissimi, al punto che al 20% più ricco andava circa il 55% di tutto il reddito prodotto in Italia – mentre di recente siamo a poco più del 40.
Un altro modo per rispondere a queste domande è guardare alle ricostruzioni storiche di Giovanni Vecchi e coautori, che nel volume “Measuring Wellbeing: A History of Italian Living Standards” edito da Oxford University Press hanno raccolto un gran numero di indicatori su un secolo e mezzo – e a volte anche di più – di Italia e di italiani.
Scopriamo così che le cose non cambiano moltissimo nei primi decenni subito dopo l’unità, almeno quanto a reddito, mentre la disuguaglianza misurata attraverso il coefficiente di Gini ha invece delle oscillazioni. In questo periodo storico però le stime sono anche più fragili, perché si tratta di ricostruzioni che precedono di decenni le fonti statistiche come le conosciamo e usiamo oggi, e pur essendo le migliori disponibili vanno prese con qualche grano di sale.
Gli stessi autori delle stime, d’altronde, scrivono che “sebbene l’indice [di Gini] sia senz’altro aumentato di quattro punti fra il 1871 e il 1901, e poi diminuito dello stesso numero fra il 1901 e il 1921, l’ampiezza della variazione – per quanto non trascurabile – è nel complesso piccola e appena statisticamente significativa”. Il periodo del fascismo, invece, pur disastroso dal punto di vista dei redditi – e non solo, naturalmente – “non sembra aver portato a cambiamenti significativi in questo senso”.
Con rallentamenti e persino qualche retromarcia, certo, ma nel lungo periodo alla crescita economica italiana si è associato un enorme calo delle disuguaglianze. Questo è vero soprattutto per l’Italia repubblicana. Scrivono ancora Vecchi e Amendola che “l’intensa crescita economica del dopoguerra portò a un grande aumento del reddito nazionale, ma solo parte di esso raggiunse l’intera popolazione: nei vent’anni dal 1948 al 1968 il PIL pro capite triplicò mentre i salari medi raddoppiavano soltanto”.
Questa fase storica finisce con l’autunno caldo del 1969, periodo a partire dal quale convergono diversi fattori politici, economici e sociali: si rafforza il ruolo dei sindacati, l’inflazione a doppia cifra unita ai meccanismi di indicizzazione dei salari “ha profonde ripercussioni sull’intera struttura del reddito delle famiglie”, e insieme si sviluppa parte dello stato sociale per come lo conosciamo oggi.
Dopo i minimi raggiunti all’inizio degli anni ‘90 il coefficiente di Gini torna a salire bruscamente fra il 1991 e il 1993, in coincidenza con la crisi del cambio di quegli anni. Da allora la tendenza è al rialzo, e con gli ultimi dati disponibili l’Italia è tornata ai livelli di metà degli anni ‘70.
Il reddito segue per alcuni periodi una traiettoria vicina a una minore disparità nella sua distribuzione, ma poi proprio di recente finisce per andarsene per conto proprio. La crescita italiana punta il freno e rallenta rispetto alle altre economie avanzate, fino a esaurire praticamente del tutto la propria spinta in tempi recenti. Ancora oggi, dopo la botta della recessione e la leggera ripresa in corso, il PIL pro capite degli italiani resta al livello di vent’anni fa.
Di disuguaglianza non ne esiste una soltanto, e fra le maggiori in aumento c’è quella generazionale: a intendere le crescenti differenze fra giovani e anziani. Uno fra i sistemi pensionistici più generosi del mondo, come mostrano i dati dell’OCSE, ha infatti consentito condizioni favorevolissime a gruppi di lavoratori, che tramite il sistema retributivo hanno potuto – e ancora oggi possono – accedere a un reddito pensionistico praticamente indipendente dalla loro carriera.
Almeno fino agli anni ‘90 l’ammontare della pensione dipendeva dalla propria retribuzione a fine carriera, a prescindere dai contributi pensionistici versati, e in questo modo diversi lavoratori hanno finito per ricevere molto di più di quanto avevano versato. I soldi che fanno la differenza però da qualche parte devono arrivare, e la differenza è andata in carico al resto del sistema produttivo italiano sul quale la pressione fiscale è oggi molto maggiore di quanto non fosse anche solo venti o trent’anni fa.
Con la grande recessione questa situazione è peggiorata ancora, e a fronte di centinaia di migliaia di persone – in larga parte giovani – che hanno perso il lavoro il reddito dei pensionati è rimasto dov’era: al punto che oggi chi è più in avanti con gli anni risulta di gran lunga meno esposto alla povertà rispetto a tutti gli altri. Un genere di disuguaglianza in enorme crescita, ma curiosamente ignorata dalla politica.