Un incidente o un malore – scongiuri facendo – può capitare a tutti. Eppure quando poi arriviamo in pronto soccorso le cose possono andare in maniera parecchio diversa: a seconda di dove viviamo a volte riusciremo a cavarcela tutto sommato in poco tempo, altre invece per curarci toccherà aspettare persino più di 24 ore.
Quest’ultimo è certamente un caso estremo e in effetti abbastanza raro, nei reparti di urgenza italiani, ma ha coinvolto comunque un numero di pazienti che è impossibile ignorare – in particolare nella capitale. Proprio a Roma nel 2016 risultano i pronto soccorso con la maggior percentuale di pazienti che sono rimasti in ospedale per più di un intero giorno.
Se nel resto d’Italia questo numero quasi mai supera il 10%, in strutture come il S. Andrea, S. Filippo Neri e Tor Vergata poco meno del 17% degli accessi hanno avuto una permanenza estremamente lunga – e anche il Sandro Pertini, sempre a Roma, pur non arrivando a questi estremi resta comunque fuori scala.
In effetti i primi dieci pronto soccorso italiani più lenti – definiti come quelli con la fetta maggiore di accessi dura oltre 24 ore – sono tutti a Roma a parte due, e hanno ospitato decine di migliaia di pazienti.
Per la precisione parliamo qui di accessi, un numero che però non equivale al numero di persone che sono davvero andate in un pronto soccorso, perché è possibile – e in effetti certo – che alcune ne abbiano avuto bisogno anche per più di una volta, mentre i più fortunati nessuna. Se lo stesso paziente si reca tre volte in un mese in urgenza, vengono contati altrettanti accessi mentre naturalmente la persona coinvolta resta soltanto una.
I dati arrivano dal Programma Nazionale Esiti realizzato da AGENAS, agenzia pubblica che supporta il sistema nazionale sanitario attraverso analisi e valutazioni. Gli ultimi numeri disponibili relativi ai pronto soccorso italiani fanno riferimento al 2016, ma sono presenti anche quelli dei due precedenti.
Tuttavia non sempre le statistiche sono disponibili per tutti gli anni e per tutti gli ospedali, e questo suggerisce di usare un po’ di cautela nell’interpretare i numeri: essi non ci dicono tutto, s’intende, ma certo resta difficile ignorare le differenze a volte estreme che risultano fra ospedali e città diverse.
La differenza fra la capitale e il resto del paese diventa ancora più evidente confrontandone le strutture, per esempio, con quelle di Milano. Nei pronto soccorso del capoluogo lombardo dover passare un’intera giornata in ospedale per un’urgenza è rarissimo, e nel 2016 è capitato al più all’1% degli accessi. D’altra parte nei due principali reparti di urgenza oltre il 90% dei casi si risolve in meno di 12 ore.
A Roma la situazione è molto più eterogenea. Se nelle piccole strutture i tempi di attesa medi rendono poco comuni le attese estreme, sono almeno una decina i pronto soccorso dove chi vi si reca può aspettarsi una visita non proprio fulminea.
Se invece più probabilmente siamo uno degli altri 56 milioni di italiani che non vive in nessuna delle due città, possiamo comunque cercare il luogo in cui viviamo nei menu dei grafici interattivi che seguono per capire quanto sono durate – al netto della gravità dei casi, naturalmente – le visite d’urgenza.
Da cosa dipendono queste differenze? Si tratta di una domanda difficile, e su cui pesano diversi fattori. I più ovvi sono l’organizzazione e l’efficienza di ciascuna struttura, che varia da un luogo all’altro a volte anche in maniera estrema. O per dirla in altre parole: ci sono pochi dubbi che alcuni pronto soccorso siano molto migliori di altri.
Usare però solo il tempo di permanenza dei pazienti per giudicarlo può essere fuorviante. Se per ipotesi in un ospedale si recano sempre pazienti più gravi che in altro, non c’è troppo da sorprenderci che i tempi aumentino.
Per fortuna in questo senso possiamo ricorrere ancora ai dati AGENAS, che registrano anche questo fattore. I reparti di urgenza italiani infatti hanno usato un metodo chiamato “triage” per classificare i pazienti in ordine di gravità: ai più critici viene assegnato il codice rosso, ai meno urgenti il bianco. Mettendo in relazione i due troviamo che in effetti diverse fra le strutture romane sembrano accogliere un numero elevato di pazienti gravi, parecchio superiore alla media italiana.
La relazione fra le due cose è però tutt’altro che ovvia: prendendo tutte le strutture italiane non è affatto scontato che quelle con una percentuale maggiore di codici rossi siano anche le più “lente”. Una correlazione fra le due cose esiste, ma è piuttosto debole. E in effetti troviamo tante eccezioni con reparti dove arrivano ancora più casi gravi, ma comunque non arrivano mai agli estremi di durata di alcuni reparti romani.
A questo punto le cose si complicano ancora. È possibile che nonostante l’uso comune del triage diverse strutture usino criteri altrettanto diversi per stabilire quanto sono gravi i pazienti, e questo rende complicato stabilire quanto essi pesino nel determinare pronto soccorso più veloci o più lenti.
La variabilità nel numero di accessi etichettati come urgentissimi e altri come secondari è talmente alta che risulta difficile trovare un filo comune, anche fra reparti di dimensione simile.
Come ricorda il direttore della Fondazione Gimbe Nino Cartabellotta sull’Espresso – che promuove ricerca e formazione in ambito sanitario –, “la durata della permanenza dei pazienti in pronto soccorso è influenzata da diversi elementi, la cui combinazione contribuisce a determinare le differenze tra i vari ospedali, ma che comunque sono presenti in misura variabile in tutti i pronto soccorso”.
Incidono fattori come l’eccesso di pazienti, che “per scarsa disponibilità dei medici di famiglia o di percorsi di cura alternativi al ricovero”, oppure “l’opportunismo dei pazienti o degli stessi medici di famiglia, per superare le liste di attesa di accertamenti diagnostici”. Poi ancora la “percezione del pronto soccorso come erogatore di assistenza sanitaria di ultima istanza, spesso anche per soddisfare qualunque fabbisogno di salute: a prescindere dalla reale urgenza o gravità”, oppure “l’assenza o cattiva organizzazione di percorsi assistenziali, le carenze di personale, l’inadeguata organizzazione dello staff medico-infermieristico.
A questo va aggiunto “l’eccesso di richieste di esami diagnostici e consulenze – spesso indotti da un atteggiamento di medicina difensiva –, i ritardi delle consulenze specialistiche, oltre che dei servizi di radiologia e di laboratorio, nel fornire i referti degli esami”.
Come che sia, la complessità non deve farci dimenticare il punto iniziale: quali che siano le cause, negli ospedali romani sembra davvero esserci qualcosa che non va. Difficile spiegare una differenza così ampia in termini di efficienza soltanto con le diverse condizioni di salute dei pazienti: se così fosse gli abitanti della capitale dovrebbero essere davvero ridotti male, in media – cosa di cui, per fortuna, nelle statistiche non sembra esserci traccia