La maggiore longevità nel settore occupazionale è un onere o un dividendo? Secondo quanto emerge da una ricerca condotta dall’International Longevity Center nel Regno Unito che ha coinvolto 35 paesi utilizzando i dati raccolti dall’OCSE, chi invecchia in buona salute sarebbe addirittura più produttivo rispetto ai colleghi più giovani.
Con l’aumento dell’età media l’aspettativa di vita in salute dei lavoratori aumenterebbe infatti anche la loro efficienza sul lavoro. Un aumento sia in termini di produttività oraria, che per lavoratore che pro capite, che si tradurrebbe in un beneficio economico per tutta la comunità. Il condizionale è d’obbligo, anche perché non è chiaro dall’articolo se oltre alla comunità, anche i diretti interessati beneficino del fatto di continuare a lavorare intens(iv)amente mentre gli anni passano.
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Il fattore più potente attraverso il quale l’aspettativa di vita può generare un aumento della produzione è l’istruzione: a parità di altre condizioni, vivere di più aumenta il rendimento degli investimenti fatti per la propria formazione. Purtroppo però non sempre è così. Uno dei vantaggi più tangibili di vivere e lavorare più a lungo è la conservazione delle capacità e delle conoscenze, ma serve una formazione continua, che in Italia non è la prassi.
Lo racconta il XVIII Rapporto sulla formazione continua di ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) del 2018: l’Italia è sotto la media dell’Unione Europea quanto a partecipazione alla formazione continua. L’8,3% degli adulti italiani ha preso parte a corsi di formazione, contro il 10,3% della media europea. In Svezia, Danimarca si sfiora il 30%, in Francia e Olanda il 20%, nel Regno Unito il 15%. Inoltre il 40% degli adulti italiani non ha il diploma mentre in Europa la media è del 24%.
Il dato drammatico che emerge è che ovunque in Europa i lavoratori più invecchiano e meno partecipano ad attività di formazione continua. Nel 2016 ha seguito corsi di formazione il 6,1% dei lavoratori europei dai 55 ai 64 anni (e il 5,1% degli italiani), contro il 9% dei 45-54 enni (il 6,8% degli italiani) e il 10,8 dei 35-44 enni (il 7,4% degli italiani).
Per quanto riguarda l’Italia poi, il divario nord sud nell’offerta è enorme. Il 22,7% dei piani approvati per essere finanziati dai fondi (periodo gennaio-dicembre 2016) è infatti della Lombardia. Il 14,4% del Veneto. L’11,6% dell’Emilia Romagna e il 9% del Piemonte. Fanalini di coda Basilicata (1%), Molise (0,4%) e Valle d’Aosta(0,3%).
In tutto questo il vero elemento cruciale è il fattore salute. Se la ricerca che abbiamo citato in apertura mostra una correlazione positiva fra invecchiare stando bene ed essere produttivi (sempre che ci manteniamo in formazione continua) è vero anche il contrario: non investire nella salute della popolazione che invecchia potrebbe sotterrare la nostra economia. I dati sono quelli del progetto SHARE http://www.share-project.org (Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe) che studia la popolazione over 50 in 27 paesi europei, raccontati all’interno del rapporto 2016 di OCSE Health at a Glance .
In Europa chi ha più di due malattie croniche presenta un tasso occupazionale dimezzato rispetto a chi non ha nessuna di queste patologie. Anche la differenza in termini di giorni di malattia fra chi ha più di 2 malattie croniche e chi non ne ha nessuna è alta: un mese l’anno contro una settimana l’anno, rispettivamente. Va precisato che nel computo delle “malattie croniche” si includono anche condizioni come diabete e obesità: il tasso di occupazione fra gli obesi è la metà di quello dei non obesi, più della metà di coloro che lavorano ha chiesto almeno 12 giorni di malattia durante l’anno rispetto agli otto giorni richiesti in media dalle persone non obese.
Trovarsi a gestire un onere o un guadagno in termini di produttività dipende dunque dalla misura in cui le società si preparano alle sfide dell’invecchiamento della popolazione ed è dunque un risultato interessante in un’ottica di economia sanitaria. “In molti dibattiti sulla spesa pubblica a lungo termine, la spesa sanitaria è semplicemente vista come un drenaggio delle risorse fiscali – spiega l’autore dello studio, Ben Franklin – mentre nel nostro lavoro la prospettiva si inverte: migliorare la salute della popolazione (di tutta la popolazione aggiungiamo noi) cioè aumentare non solo l’aspettativa di vita ma gli anni di vita in salute, non è solo un modo per arginare i deficit delle persone che invecchiano, ma è la via per migliorare la nostra economia. Secondo quanto emerge da una ricerca condotta dall’International Longevity Center nel Regno Unito che ha coinvolto 35 paesi utilizzando i dati raccolti dall’OCSE, chi invecchia in buona salute sarebbe addirittura più produttivo rispetto ai colleghi più giovani.
Con l’aumento dell’età media l’aspettativa di vita in salute dei lavoratori aumenterebbe infatti anche la loro efficienza sul lavoro. Un aumento sia in termini di produttività oraria, che per lavoratore che pro capite, che si tradurrebbe in un beneficio economico per tutta la comunità. Il condizionale è d’obbligo, anche perché non è chiaro dall’articolo se oltre alla comunità, anche i diretti interessati beneficino del fatto di continuare a lavorare intens(iv)amente mentre gli anni passano.
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Il fattore più potente attraverso il quale l’aspettativa di vita può generare un aumento della produzione è l’istruzione: a parità di altre condizioni, vivere di più aumenta il rendimento degli investimenti fatti per la propria formazione. Purtroppo però non sempre è così. Uno dei vantaggi più tangibili di vivere e lavorare più a lungo è la conservazione delle capacità e delle conoscenze, ma serve una formazione continua, che in Italia non è la prassi.
Lo racconta il XVIII Rapporto sulla formazione continua di ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) del 2018: l’Italia è sotto la media dell’Unione Europea quanto a partecipazione alla formazione continua. L’8,3% degli adulti italiani ha preso parte a corsi di formazione, contro il 10,3% della media europea. In Svezia, Danimarca si sfiora il 30%, in Francia e Olanda il 20%, nel Regno Unito il 15%. Inoltre il 40% degli adulti italiani non ha il diploma mentre in Europa la media è del 24%.
Il dato drammatico che emerge è che ovunque in Europa i lavoratori più invecchiano e meno partecipano ad attività di formazione continua. Nel 2016 ha seguito corsi di formazione il 6,1% dei lavoratori europei dai 55 ai 64 anni (e il 5,1% degli italiani), contro il 9% dei 45-54 enni (il 6,8% degli italiani) e il 10,8 dei 35-44 enni (il 7,4% degli italiani).
Per quanto riguarda l’Italia poi, il divario nord sud nell’offerta è enorme. Il 22,7% dei piani approvati per essere finanziati dai fondi (periodo gennaio-dicembre 2016) è infatti della Lombardia. Il 14,4% del Veneto. L’11,6% dell’Emilia Romagna e il 9% del Piemonte. Fanalini di coda Basilicata (1%), Molise (0,4%) e Valle d’Aosta(0,3%).
In tutto questo il vero elemento cruciale è il fattore salute. Se la ricerca che abbiamo citato in apertura mostra una correlazione positiva fra invecchiare stando bene ed essere produttivi (sempre che ci manteniamo in formazione continua) è vero anche il contrario: non investire nella salute della popolazione che invecchia potrebbe sotterrare la nostra economia. I dati sono quelli del progetto SHARE http://www.share-project.org (Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe) che studia la popolazione over 50 in 27 paesi europei, raccontati all’interno del rapporto 2016 di OCSE Health at a Glance .
In Europa chi ha più di due malattie croniche presenta un tasso occupazionale dimezzato rispetto a chi non ha nessuna di queste patologie. Anche la differenza in termini di giorni di malattia fra chi ha più di 2 malattie croniche e chi non ne ha nessuna è alta: un mese l’anno contro una settimana l’anno, rispettivamente. Va precisato che nel computo delle “malattie croniche” si includono anche condizioni come diabete e obesità: il tasso di occupazione fra gli obesi è la metà di quello dei non obesi, più della metà di coloro che lavorano ha chiesto almeno 12 giorni di malattia durante l’anno rispetto agli otto giorni richiesti in media dalle persone non obese.
Trovarsi a gestire un onere o un guadagno in termini di produttività dipende dunque dalla misura in cui le società si preparano alle sfide dell’invecchiamento della popolazione ed è dunque un risultato interessante in un’ottica di economia sanitaria. “In molti dibattiti sulla spesa pubblica a lungo termine, la spesa sanitaria è semplicemente vista come un drenaggio delle risorse fiscali – spiega l’autore dello studio, Ben Franklin – mentre nel nostro lavoro la prospettiva si inverte: migliorare la salute della popolazione (di tutta la popolazione aggiungiamo noi) cioè aumentare non solo l’aspettativa di vita ma gli anni di vita in salute, non è solo un modo per arginare i deficit delle persone che invecchiano, ma è la via per migliorare la nostra economia.