La “buona notizia” che emerge dall’ultima indagine Eu-Silc di Istat è che un minuscolo passo nella direzione di ridurre il gap fra i più ricchi e i più poveri in realtà sia stato fatto, nel 2017. La percentuale di famiglie a rischio di povertà ed esclusione sociale e quello delle famiglie in grave deprivazione materiale in Italia sembrerebbe essere diminuito dal 2016 al 2017. Nell’ultimo anno si stima che il 28,9% delle persone residenti in Italia sia a rischio di povertà o di esclusione sociale, rispetto al 30% del 2016.
Nonostante questi piccoli passetti, siamo ben lontani dai target che avevamo fissato nell’ambito di Europa 2020, quando auspicavamo di far uscire da questa condizione 2,2 milioni di persone rispetto al valore registrato nel 2008 (15 milioni di persone). Nel 2017 la popolazione esposta a rischio di povertà o esclusione sociale è di circa 17 milioni e 407 mila unità, cioè oltre 4 milioni di persone in povertà in più rispetto al target previsto.
Nel 2016 è cresciuto anche il reddito mediano, con un picco del +3,9% a Nord-est, a fronte di un’aliquota media rimasta stabile rispetto al 2015, intorno al 19%. Anzi, nel complesso il cuneo fiscale e contributivo è andato abbassandosi, stabilizzandosi nel 2016 al 45,7% del costo del lavoro.
Quello su cui non siamo andati avanti, anzi abbiamo fatto passi indietro è il lavoro femminile. Dal 2016 al 2017 il reddito lordo annuale maschile è aumentato, quello femminile diminuito. Siamo passate dai 20.099 euro lordi del 2015 ai 20.093 del 2016, mentre i nostri colleghi uomini da 26.908 a 27.486 euro annui. Come si evince, le donne sono retribuite in media il 23% in meno rispetto agli uomini, nonostante siano più istruite.
Possiede una laurea il 26,4% delle lavoratrici subordinate (contro il 16,9% degli uomini) e il 35,4% delle freelance (contro il 24,2% dei maschi). Per queste ultime il differenziale di genere cresce con il livello d’istruzione: le donne ricevono in media il 14,4% in meno tra i lavoratori meno istruiti e ben il 38,5% in meno tra i più istruiti. I redditi lordi delle freelance sono pari in media a 18.016 euro rispetto ai 26.305 euro dei percettori maschi. Ciò significa che queste lavoratrici, pur rappresentando oltre un terzo dei lavoratori autonomi producono appena un quarto del reddito totale, a fronte di un’incidenza delle imposte sul reddito lordo di tre punti percentuali più basso rispetto agli uomini: il 17,3% contro il 20,7%.
Lo stesso vale per le pensioni, frutto del non lavoro da parte delle donne oggi anziane. Sebbene siano di più le pensionate vedove rispetto ai pensionati, le donne sono più povere, percependo nella maggioranza dei casi la pensione di reversibilità del marito, con valori medi netti di 13 mila euro annui, più bassi dunque della pensione che riceve un uomo per il suo lavoro, in media 18 mila euro netti annui.
Il fenomeno del lavoro femminile scarso e meno pagato è sempre poco evidente nelle statistiche che considerano il reddito familiare complessivo. Ne consegue che le famiglie a rischio di povertà sono passate dal rappresentare il 20,6% del totale al 20,3%, e le seconde dal 12% al 10%. Nel contempo le famiglie a bassa intensità lavorativa nel 2017 erano l’11,8% dei 18-59 anni esclusi gli studenti, un punto in percentuale in meno dell’anno precedente. Al netto degli affitti figurativi, si stima che il rapporto tra il reddito equivalente totale del 20% degli italiani più ricchi e quello del 20% dei più poveri si sia ridotto da 6,3 a 5,9, pur rimanendo al di sopra dei livelli pre-crisi (5,2).
Anche al sud le cose nel complesso sembrano essere leggermente migliorate, nonostante i numeri della povertà siano ancora agghiaccianti. Dal 2016 al 2017 siamo passati dal 46% al 44% di popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale, e dal 21% al 16% di popolazione a rischio di grave deprivazione materiale. Inoltre, il 13% dei monogenitori – più di uno su sette, e per lo più donna – è a rischio di grave deprivazione materiale.