Partiamo dalle emissione di CO2. I dati però secondo Eurostat arrivano solo fino al 2017. E non sono buoni.
Da un punto di vista ambientale, ricorda Riccardo Saporiti, è un problema. Se è vero, come è vero, che la crisi economica aveva contribuito alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera, il fatto che nel 2017 siano aumentate su base tendenziale specie in Paesi come l’Italia, la Spagna e la Grecia potrebbe essere l’indice di una ripresa della produzione. Per quanto non si possano definire in crisi realtà come Germania e Regno Unito, che pure la loro quantità di CO2 emessa in atmosfera l’hanno ridotta. Il fatto è che i dati delle emissioni diffusi da Eurostat dicono questo:
Per quanto si sciolgano sempre più in fretta, i ghiacci artici sono lontani. E lo stesso vale per gli uragani che sempre più distruttivi si abbattono sul suolo americano. Quando poi le catastrofi legate agli eventi climatici estremi arrivano a casa nostra, come sta succedendo in queste ore nel cagliaritano, siamo giustamente più concentrati sui soccorsi e sulla successiva ricostruzione. Il risultato è che trascuriamo la causa profonda di tutto ciò: il riscaldamento globale.
Eppure, la situazione è allarmante. Secondo il quinto rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) abbiamo 12 anni per contenere l’aumento della temperatura globale entro gli 1,5°. Dopodiché sarà catastrofe. Aiuterebbe allora a far crescere la consapevolezza del problema la possibilità di toccare con mano gli effetti del riscaldamento globale? Capire cioè quanto siano cresciute le temperature, se non proprio nel giardino di casa propria, almeno nella città in cui si vive?
Se la risposta è sì, lo European Data Journalism Network, una rete per il giornalismo data driven che raccoglie diverse testate e organizzazioni europee, ha la soluzione. O meglio, ha i numeri che permettono di capire come stia cambiando il clima a livello cittadino. Nei giorni scorsi lo EDJN ha infatti pubblicato One degree warmer”, un’inchiesta realizzata analizzando oltre 100 milioni di dati meteorologici relativi a 54 delle quali italiane. Numeri che coprono gli ultimi 117 anni di storia e che consentono di capire come siano cambiate le cose tra il XX ed il XXI secolo. Ad esempio considerando l’aumento dei giorni considerati caldi e di quelli definiti freddi:
Nel grafico più un punto è in basso più sono diminuiti i giorni freddi, più è a destra più sono aumentati quelli caldi. Le dimensioni dei punti indicano l’aumento della temperatura media. Il colore vira dall’azzurro al rosso quanti più sono i giorni freddi “cancellati” dal riscaldamento globale. Il raffronto è fatto tra la situazione nel secolo scorso e quella dei primi 17 anni di quello attuale.
Caldo e freddo, ovviamente, sono due concetti relativi. Nello specifico, un giorno freddo è definito come una giornata in cui la temperatura media è stata inferiore a -1°C. Circostanza ovviamente straordinaria a Cipro, più che normale a Helsinki. Ed è proprio per tener conto di questo tipo di differenze che le giornate calde sono definite come quelle giornate in cui è stata superata una determinata temperatura media, diversa per ciascuna città. Per i nerd della statistica: corrisponde a un calcolo combinato delle deviazioni standard dalla temperatura media registrata tra il 1900 ed il 2017.
Così, per tornare ai due esempi citati poc’anzi, a Lefkosia (Cipro) un giorno è considerato caldo se la temperatura media supera i 32°. Mentre a Helsinki basta andare oltre i 21 gradi per inserire la giornata tra quelle calde. In Italia ci si muove dai 18 di Bolzano ai 28 di Rimini e Trapani. Vale la pena di ricordare ancora una volta che si tratta di temperatura media giornaliera: non basta insomma che i termometri superino questa soglia tra mezzogiorno e le due di pomeriggio perché la giornata venga considerata calda.
Se appunto andiamo a valutare la situazione italiana, utilizzando il filtro in alto a sinistra, possiamo innanzitutto notare una cosa. Ci sono delle città nelle quali il principale effetto del riscaldamento globale è stato quello di aumentare le giornate cosiddette calde. A Pescara, Ancona e Lecce sono circa 11 in più ogni anno. Se si tiene conto che nel secondo scorso erano meno di una ogni anno, si comprende bene come siano cambiate le cose.
Al capo opposto, ci sono realtà in cui gli effetti del cambiamento climatico si esprimono principalmente con una riduzione delle giornate in cui la temperatura media è inferiore a -1°C. Bergamo, Milano e Pordenone hanno perso 15 giorni di gelo rispetto al secolo scorso. Giusto per comprendere meglio: nel capoluogo lombardo il secolo scorso vedeva in media 39 giornate “gelate” l’anno. Dal 2000 ad oggi questa cifra si è ridotta a poco più di 23.
Ora, la variazione nella media di giornate calde e fredde può essere un indicatore non immediato per capire la portata del problema. Più efficace a questo scopo è certamente la temperatura. Capire cioè quanti gradi in più si registrino in media. Altro dato che l’inchiesta dell’EDJN mette a disposizione. E che Infodata ha rappresentato su questa mappa:
Di default viene visualizzata l’Italia, ma basta usare il filtro in alto a sinistra per scegliere un altro Paese europeo. I punti sono tanto più scuri quanto più è alta la differenza tra la temperatura media del XXI secolo e quella del XX secolo.
È importante innanzitutto notare che non si registrano valori negativi: nessuna delle 558 città censite presenta una temperatura media più bassa in questo secolo rispetto al precedente. Si va dagli 0,05 gradi in più di Ponta Delgada in Portogallo agli 1,59 di Granada in Spagna. Sì, qui come in altre tre città europee è stata superata la soglia degli 1,5°: si tratta di Linares e Cordoba in Spagna. Ma anche, altro elemento che da le dimensioni del problema, a Pori, in Finlandia. Dove nel XX secolo la temperatura media era di 4,59 gradi mentre, con il nuovo millennio, è salita a 6,1.
In Italia, come si può osservare dalla mappa, l’aumento delle temperature medie ha riguardato soprattutto le città del Nord. Il record spetta a Pavia, dove l’aumento è stato di 1,29 gradi. Quello più contenuto ha riguardato invece Cagliari, dove ci sono appena 0,3 gradi in più rispetto al secolo scorso. A Roma l’aumento è stato di 1,03 gradi, a Milano di 1,19, a Torino di 0,94. Ancora, a Firenze di 1,17 gradi, a Napoli di 0,68, a Palermo di 0,6. È questa la situazione nel giardino di casa nostra. Un giardino in cui fa sempre più caldo.
Da qui la domanda vera. Ce la faremo entro il 2030 a diventare una comunità sostenibile da un punto di vista ambientale?
Prova a rispondere Cristina Da Rold: Secondo quanto riportano i dati raccolti da Eurostat a riguardo, l’Italia non se la cava male per quanto riguarda la produzione di energia pulita e nel riciclaggio, anche se potremmo fare meglio dal punto vista dell’inquinamento dell’aria e per ridurre le emissioni di gas serra.
Produzione di energia da fonti verdi maggiore della media europea…
La buona notizia è che dal 2004 al 2016 la percentuale di energia prodotta da fonti rinnovabili (solare, eolico, geotermico) nel nostro paese è aumentata di più di quanto sia cresciuta in Europa, con il risultato che se 10 anni fa eravamo sotto la media europea, oggi – in particolare le cose hanno iniziato ad accelerare dopo il 2011 – siamo sopra la media, con il 17,5% di energia verde prodotta sul totale. Il trend è in crescita specie per il fotovoltaico. Come raccontavamo un paio di mesi fa riportando i dati dell’International Energy Agency (IEA), nel 2022 si prevede che in Italia il 15% dell’energia arriverà solo da da eolico o fotovoltaico.
… ma produciamo ancora troppi gas serra
Riguardo alla produzione di gas serra, ci sono due dati da considerare: come valore assoluto in termini di tonnellate di CO2 equivalente prodotti per capita, l’Italia presenta valori superiori rispetto alla media europea, e soprattutto un leggero aumento, che non si verificava da diversi anni.
Tuttavia, considerando le tonnellate di CO2 equivalente per unità di energia prodotta e consumata siamo ben al di sotto della media europea. Nonostante quest’ultimo dato positivo, resta il fatto che attualmente il nostro paese produce troppi gas serra, e questo continua a essere un fattore cruciale per andare nella direzione di ridurre il riscaldamento globale. Il settore energetico svolge un ruolo chiave nella lotta contro i cambiamenti climatici. L’Unione Europea, a partire dalla Energy Union e dal 2030 Climate and Energy Policy Framework, lavora per attuare politiche energetiche sostenibili efficienti che soddisfino gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra aumentando la produzione di energia da risorse energetiche a basse emissioni di carbonio migliorando l’efficienza energetica, da una parte per meglio gestire la domanda di energia, dall’altra per aumentare la stabilità e la trasparenza dei mercati dell’energia e per sviluppare tecnologie energetiche pulite.
Troppe persone esposte a livelli di polveri sottili troppo pericolosi
Ce lo ripetono tutte le organizzazioni internazionali da anni: l’Italia è bollino rosso quanto a concentrazioni di PM2.5 o PM1 nell’aria che respiriamo, mostrando una situazione peggiore rispetto alla media europea. Nel 2015 l’Italia registra concentrazioni medie di 21 microgrammi per metro cubo, contro i 14 microgrammi medi europei. Per legge al 1° gennaio 2015 doveva essere raggiunta una concentrazione massima su base annuale di 25 µg/m3 fissata dall’Unione Europa, mentre entro il 1° gennaio 2020 si dovrà raggiungere il valore soglia di 20 μg/m3.
La valutazione del rischio sanitario per la popolazione rimane comunque problematica, dal momento che l’Europa e l’Organizzazione Mondiale della Sanità pongono valori soglia per la sicurezza differenti: quelli proposti dall’UE sono più laschi, quelli dell’OMS più stringenti. L’OMS fissa infatti a 10 microgrammi per metro cubo i limiti da non superare per il PM 2,5, contro i 25 microgrammi fissati dall’Unione Europea. La differenza si esprime nel fatto che nel 2015 il 7% della popolazione urbana europea è stata esposta a livelli di PM2,5 superiori al valore limite annuale stabilito dall’UE, mentre l’82% è stato esposto a livelli che hanno oltrepassato le più rigide linee guida dell’OMS.
Più interessante del valore medio però sono i picchi che si toccano nelle principali città. Lo aveva rilevato anche il rapporto MobilitAria 2018 , coordinato da Kyoto Club che ha esaminato la qualità dell’aria nelle 14 grandi città italiane negli ultimi 10 anni, concludendo che esse sono ancora caratterizzate da concentrazioni ben oltre i valori soglia, non solo per i particolati, ma anche per il biossido di azoto, prodotto principalmente dalle nostre auto, in particolare dai motori diesel.
La European Energy Agency (EEA) mostra chiaramente nei suoi rapporti annuali che la Pianura Padana registra insieme alla Polonia i livelli più alti di concentrazione di particolati d’Europa.
Certo, il problema non è solo italiano: se da una parte la situazione in Europa è andata lentamente migliorando a partire dal 2008 grazie a politiche di contenimento, la EEA stima che in un solo anno, dal 2014 al 2015 per le polveri sottili è come se fosse sparita dall’Europa una città come Bologna. 400 mila persone morte prematuramente nel 2015 a causa di emissioni di particolati, dovute principalmente al trasporto su strada, ma anche al settore agricolo, a quello industriale e al riscaldamento domestico.
Le nostre acque: nitrati e fosfati sotto i valori soglia
All’interno degli obiettivi di sostenibilità delle Nazioni Unite dedicati all’ambiente, uno degli indicatori considerati riguarda la qualità delle nostre acque, sotterranee e non. Il pirmo indicatore sono i nitrati, le cui concentrazioni in Italia nelle acque potabili non devono per legge superare i 50 mg/L. Va detto però che come sottolineano gli esperti di AIRC, di per sé i nitrati non sono tossici per il nostro organismo. Lo sono solo se convertiti in nitriti, poiché possono dare vita a composti che sono ritenuti cancerogeni.
Stando ai dati Eurostat, negli ultimi 10 anni l’Italia ha visto aumentare le proprie concentrazioni di nitrati nelle acque sotterranee, posizionandoci al di sopra della media europea, che invece è rimasta sostanzialmente invariata.
La presenza molto elevata di fosfati invece può portare al fenomeno dell’eutrofizzazione ovvero alla proliferazione di alghe microscopiche che non vengono smaltite dai consumatori primari con aumento del consumo globale di ossigeno, portando alla morte dei pesci. In Italia le concentrazioni medie sono più basse rispetto alla media europea, rimanendo al di sotto – in media – dei valori soglia. Le concentrazioni critiche per una eutrofizzazione iniziale, nei corsi d’acqua, si attestano infatti intorno allo 0,1-0,2 mg/l PO4-P, mentre nelle acque stagnanti addirittura intorno allo 0,005-0,01 mg/l PO4-P.
Produzione di rifiuti in allarmante crescita. Ma stiamo migliorando sul riciclaggio
Un ultimo indicatore utile riguarda la produzione e lo smaltimento dei rifiuti. La cattiva notizia è che purtroppo stiamo andando nella direzione opposta rispetto all’Europa: dal 2004 a oggi siamo passati da 1441 kg di rifiuti pro capite a 1772 kg, mentre l’Europa ha ridotto di 200 kg annui pro capita la quantità di rifiuti prodotti.
La buona notizia è invece che come media abbiamo finalmente raggiunto gli standard europei sulla quantità di rifiuti che ricicliamo, a partire dal gap di 10 punti percentuali che avevano con l’Europa nell’anno 2000.
Oggi ricicliamo in media il 45% dei rifiuti prodotti a livello municipale, nel 2000 riciclavamo il 14% di essi, nel 2007 il 25%.