Nei primi anni Cinquanta, quando l’Italia stava entrando nel suo “trentennio glorioso” di crescita economica, un lavoratore (maschio) di 60 anni aveva una speranza di vita residua di circa 16 anni. Oggi supera i 23 anni, il che significa che la sua longevità è cresciuta del 43%. Alla nascita quello stesso italiano degli anni Cinquanta aveva una speranza di vita poco sopra i 63 anni, contro gli 80 e qualche mese di oggi. Dal punto di vista previdenziale si chiama longevity risk, un fattore che aumenta al diminuire dell’età al pensionamento: chi va in pensione prima beneficia di un premio maggiore. Ecco perché il pensionamento precoce ha un costo che occorre limitare, come ha spiegato nell’ultima intervista pubblicata su questo sito l’economista della previdenza Sandro Gronchi.
In questa Info Data potete navigare gli indici sulle aspettative di vita e sulle condizioni degli anziani di Istat dal 2002 al 2018. Basta cliccare alla voce seleziona per potere consultare l’elenco degli indici.
Il tema non è nuovo ma poiché quest’anno, secondo le previsioni governative, andranno in pensione circa 300mila italiani con 62 anni, forse vale la pena tornare a guardare qualche indicatore demografico. Non che la cosa serva a cambiare la realtà, visto che ormai “quota 100” con i suoi costi per le generazioni presenti e future è in partenza. Ma per il futuro, quando si passerà alla promessa “quota 41”, ovvero la possibilità di pensionarsi ad età anche inferiore se si è raggiunto l’obiettivo contributivo.
Ebbene solo negli ultimi 15 anni la speranza di vita a 65 anni è aumentata di due, da 18 anni e 7 mesi a 20 e 6 mesi. L’età media della popolazione, sempre tra il 2003 e il 2018, è aumentata di oltre tre anni, da 41 e nove mesi a 45 e due mesi.
Il rosario potrebbe continuare ed è tutto positivo, se lo si legge guardando alla vita che si allunga. Oppure negativo, se lo si legge dal punto di vista di chi paga. Ecco, chi paga? Lo Stato ci mette molto, naturalmente, il che significa prenotare un maggior carico fiscale in futuro (già oggi il disavanzo previdenziale pro capite è di 1.300 euro). Ma consideriamo i “produttori” cioè i residenti in età lavorativa che (sempre ammesso che lavorino tutti) pagano con i loro contributi le pensioni dei loro predecessori. Ebbene: nel 2003 i 15-64enni erano il 67% della popolazione, oggi sono il 64%, ogni 100 persone nel 2002 si contavano 27,9 anziani contro i 35,2 di oggi. Bello vero? Siamo uno dei paesi più vecchi e longevi del mondo, si sa.
La mini-bussola interpretativa per valutare quanto sia equa e sostenibile, dal punto di vista intergenerazionale, “quota 100”, si ferma qui. Correndo con il cursore sulle grafiche potete completare la ricognizione logica anche da soli. Buon viaggio.