Come ogni anno, anche per il 2019, Forbes ha pubblicato i numeri relativi al valore economico delle trenta squadre Nba. Per ognuna delle franchigie della lega americana sono stati resi noti cinque indicatori che rappresentano diverse sfaccettature della loro situazione finanziaria: valore attuale della squadra espresso in miliardi di dollari (Current Value), variazione percentuale sull’anno precedente (1-Yr Value Change %), rapporto percentuale fra debito e valore attuale (Debt/Value), EBITDA (Operating Income) e ricavi totali (Revenue), entrambi espressi in milioni di dollari e riferiti alla stagione 2017/18.
Alla luce di questi dati, è possibile trovare qualche riscontro numerico dal punto di vista dei risultati che le squadre NBA stanno ottenendo sul campo durante l’attuale regular season?
Nell’infografica che segue i numeri di Forbes sono stati incrociati con la percentuale di vittorie per la stagione corrente in modo da creare un grafico cartesiano in cui sull’asse delle ascisse è stato inserito il valore attuale delle squadre espresso in miliardi, mentre su quello delle ordinate è stato riportato il bilancio vittorie/sconfitte così da avere trenta coppie di coordinate per posizionare ogni squadra.
I cinque indicatori di Forbes sono poi presentati in una tabella che prevede gradienti di colori sia sequenziali (valore attuale, rapporto debito/valore, ricavi) sia divergenti che spaziano da rosso a verde per esprimere anche valori negativi (variazione su anno precedente e EBITDA).
Cliccando sui loghi e nomi delle squadre è possibile illuminare il dettaglio del singolo team tra i due grafici.
Per il quarto anno di fila, il primo posto assoluto come franchigia dal valore più alto è occupato dai Knicks della Grande Mela che, con una stima attorno ai quattro miliardi di dollari, superano Los Angeles Lakers e Golden State Warriors, rispettivamente secondi e terzi con 3,7 e 3,5 miliardi.
Considerando anche Chicago Bulls (2,9 miliardi) e Boston Celtics (2,8) che figurano in quarta e quinta posizione, la top5 è attualmente caratterizzata da uno spettro di risultati sul campo davvero eterogeneo.
Se i Golden State Warriors, campioni in carica e detentori di tre titoli nelle ultime quattro stagioni, rappresentano un’eccellenza sia dal punto di vista economico che da quello sportivo, lo stesso non si può dire ad esempio per i Knicks.
La storica franchigia newyorkese, di proprietà del contestatissimo James Dolan, è ormai al di fuori di qualsivoglia forma di discorso vincente dalla fine dello scorso millennio quando nel 1999 disputò le Finals contro San Antonio, perdendole per 4 a 1.
Da quel momento in avanti, tolta qualche timida apparizione ai playoff durante la permanenza di Carmelo Anthony, i Knicks sono sempre uno dei bersagli preferiti sia degli esigentissimi tifosi sia degli agguerritissimi giornalisti che non perdono l’occasione di contestare l’operato dell’attuale proprietà che pare non avere mai avuto un vero piano per risollevare le sorti di una città in attesa di un titolo dal 1973, come dimostra il tragico bilancio attuale, pari ad un misero 19% di vittorie.
Se Los Angeles – sponda Lakers – con l’arrivo estivo di una stella come LeBron James sembra proiettata verso una risalita rispetto agli ultimi anni dell’era post Kobe Bryant (51% di vittorie viziato in parte da più di un mese di assenza di LBJ a causa infortunio), un altro mercato importante come Chicago, divenuto di interesse cestistico durante gli anni ’80-’90 grazie a Michael Jordan, mantiene una posizione di prestigio principalmente per motivi extra-cestistici visto che i giovani Bulls figurano al quart’ultimo posto per partite vinte (24%), facendo meglio solo di Cleveland, Phoenix e della già citata New York.
In un certo senso, Boston, senza essere un polo necessariamente di primissimo livello dal punto di appeal economico al di fuori del basket, grazie al blasone dei Celtics vincitori di diciassette titoli NBA, unito all’ottimo rendimento degli ultimi anni sotto la guida di Brad Stevens, figura al quinto posto in linea con quella che dovrebbe essere anche la pozione per quanto riguarda i risultati, che però in stagione tardano ancora ad arrivare (64% in stagione, per ora al di sotto delle aspettative), principalmente per mancanza di continuità più che di tasso tecnico.
Futuri più o meno rosei
Delle squadre che invece stanno viaggiando a gonfie vele in termini di vittorie, con bilancio superiore al 65%, tolti i Warriors, non c’è nessun’altra realtà valutata al di sopra di 1,67 miliardi di dollari, vale a dire la cifra attribuita ai Toronto Raptors, attualmente terzi con una percentuale di vittorie del 71%.
I Milwaukee Bucks (76%) che guidano momentaneamente sia la Eastern conference sia l’intera NBA hanno un valore stimato in poco più di 1,35 miliardi, così come Denver Nuggets (67% e 1,37 miliardi), Indiana Pacers (66%, e 1,4 miliardi) ed Oklahoma City Thunder (65% e 1,47 miliardi).
Tralasciando il valore assoluto per il 2019, è interessante notare come siano variati i numeri rispetto all’anno precedente notando due dati in particolare: Philadelphia ha registrato l’incremento maggiore con un rotondo 40%, mentre Cleveland è l’unico caso di flessione fra tutte e le trenta le squadre.
I Sixers, grazie ad un boom legato ai rating televisivi frutto degli ottimi risultati dopo più di un decennio di buio totale, e soprattutto per via di un’affluenza destinata a diventare la numero uno di tutta la lega al termine di questa stagione, sembrano proiettati verso un futuro nettamente radioso in linea con le strategie di mercato che li hanno resi protagonisti anche dell’ultima finestra destinata agli scambi, recentemente conclusa con l’arrivo di Tobias Harris.
Sul fronte opposto, i Cavaliers scontano il secondo capitolo della partenza di LeBron James (dopo quello molto più famoso nell’estate del 2010, annunciato in diretta televisiva nazionale con il nome “The Decision”) e, come poteva essere logico aspettarsi da una città che sportivamente è soprannominata “the big mistake on the lake” (il grosso errore sul lago), i non-risultati non sono tardati ad arrivare.
Oltre ad avere una variazione negativa di quattro punti percentuali rispetto all’anno precedente, i Cleveland Cavs sono gli unici ad aver chiuso il 2017/18 con il segno rosso per quanto riguarda l’EBITDA (tredici milioni) principalmente per via dei 203 milioni di dollari spesi in stipendi per i giocatori (inclusi gli oltre cinquanta milioni di penale per avere superato il tetto salariale) nel tentativo di fornire un supporting cast che permettesse a LeBron di raggiungere la quarta finale consecutiva, salvo poi venire spazzati via dai Golden State Warriors con un perentorio 4 a 0, figlio di un divario troppo incolmabile anche per un fenomeno come King James.
Casa dolce casa
A differenza della realtà europea, negli Stati Uniti, soprattutto in virtù delle sponsorizzazioni commerciali legate alle costruzioni degli impianti sportivi, la costruzione di una nuova arena è uno dei temi di maggiore interesse per una franchigia Nba e le conseguenze economiche in tal senso possono rivelarsi particolarmente decisive nei bilanci degli anni a venire.
Per avere un’idea delle età anagrafiche delle strutture in cui si disputano le gare NBA, basti pensare che, fatta eccezione per lo storico Madison Square Garden di New York – considerato La Mecca della pallacanestro – costruito nel lontano 1968 ma ristrutturato nella stagione 2012/13, e per la Oracle Arena in cui i Warriors disputeranno l’ultima stagione prima di trasferirsi nel nuovissimo Chase Center, l’impianto più datato è il Target Center di Minneapolis, inaugurato non più tardi del 1990.
A tal proposito, non stupirà quindi trovare in cima alla lista delle squadre con i valori più alti per il rapporto debito/valore assoluto delle realtà come Sacramento (34%) e Milwaukee (31%) che hanno da poco cambiato la propria “casa” o che, come i Warriors (23%) sono in procinto di farlo, proprio per l’impatto che questo costo mai contenuto (visti gli standard di avanguardia statunitensi) avrà sui conti delle franchigie nel prossimo futuro.