Chiunque probabilmente ha un’amica o un conoscente che a scuola è stato poco stimolato, e che poi all’università o nel mondo del lavoro ha ottenuto grandi risultati sui quali i vecchi professori mai avrebbero scommesso. Ma ognuno di noi ha conosciuto anche altre persone che invece sono state portate a rinunciare a un percorso a cui erano interessate perché non sufficientemente incoraggiate. È cosa comune infatti che gli studenti finiscano per essere etichettati come “bravi” o “non bravi” in una certa materia scolastica, portandosi dietro questo segno per tutta la vita.
Un articolo pubblicato in questi giorni su Science ha evidenziato che nell’ambito delle discipline abbracciate dall’acronimo STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) questo approccio nasconde anche il rischio concreto di una discriminazione etnica. Nonostante decenni di ricerca e milioni di dollari in finanziamenti federali volti a potenziare l’inclusione nell’ambito delle discipline STEM, negli Stati Uniti le minoranze etniche continuano a sottoperformare accademicamente rispetto ai loro coetanei bianchi.
La tesi dell’articolo è che oltre ai ben noti fattori economici e strutturali, anche la mentalità del docente giochi un ruolo non secondario in questo fenomeno: gli insegnanti che considerano l’abilità come qualcosa di innato in uno studente, cioè che ritengono che vi siano i dotati e i non dotati a priori, e che questi ultimi non possano raggiungere grandi risultati, finiscono per produrre maggiori gap dal punto di vista razziale. Esacerbano lo stereotipo “storico” secondo cui e gli studenti bianchi e asiatici sono più naturalmente dotati in matematica e logica rispetto agli studenti afro americani, latini e nativi americani.
Tutti i loro studenti sono molto meno motivati rispetto alle classi dei docenti che considerano l’abilità scientifica come qualcosa di malleabile e rafforzabile attraverso persistenza, buone strategie e un supporto da parte dei maestri, ma il fra le minoranze etniche il divario è ancora maggiore.
Lo studio, condotto negli Stati Uniti, ha riguardato un campione universitario di 150 professori e oltre 15.000 studenti. Già precedenti ricerche avevano analizzato le percezioni degli studenti ma nessuno studio aveva esaminato queste credenze come predittori delle prestazioni degli studenti. Inoltre, è la prima volta che si studia questo aspetto fra gli studenti universitari, dove la carriera prende effettivamente forma.
Ciò che è emerso è che i divari di rendimento fra gruppi etnici nei corsi tenuti da docenti con un’idea fissa di apprendimento erano doppi rispetto a quelli dove i docenti che considerano le abilità come qualcosa che si costruisce insieme allo studente. In media, tutti gli studenti hanno ottenuto risultati peggiori e si sono detti meno motivati nei corsi STEM tenuti da docenti con un’idea fissa di capacità, ma con maggiore rilevanza fra gli studenti afro americani, latino americani e nativi americani rispetto agli studenti bianchi e asiatici. In media, gli studenti non appartenenti a minoranze etiche hanno guadagnato punteggi più alti rispetto agli studenti appartenenti a minoranze, ma nelle classi dove i docenti erano propensi a etichettare gli studenti a priori come dotati o meno dotati, il gap etnico aumentava.
Le scoperte classiche sull’influenza delle credenze degli insegnanti sulle prestazioni degli studenti dimostrano che quando gli insegnanti hanno aspettative inferiori per i loro studenti, questi ultimi diventano meno motivati e di conseguenza performano peggio, confermando gli stereotipi stessi.
L’opinione dei docenti sulla “fissità” delle abilità possono essere dunque una barriera inconsapevole e trascurata per gli studenti stigmatizzati. Mentre un importante obiettivo della comunità scientifica sarebbe quello di ampliare la realizzazione e la partecipazione delle minoranze razziali nelle discipline STEM.