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economia

In Italia il 12% dei lavoratori è a rischio povertà. Il futuro? Ripartire dai working poors

 

“Il punto di partenza principale per una riflessione sul futuro del lavoro è riuscire a fare in modo che sempre meno persone lavorino tanto per guadagnare troppo poco rispetto al costo della vita. Il problema dei cosiddetti working poors oggi è enorme, e non ce ne accorgiamo, perché siamo concentrati sul contare il numero di lavoratori, e quando appuriamo che il numero è in crescita ci basta per parlare di progresso”. È molto chiaro Francesco Seghezzi, Presidente di Fondazione ADAPT e assegnista di ricerca presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, autore di una lunga analisi sul futuro del lavoro pubblicata da ISPI (Italian Insitute for International Political Studies).

In Italia il 12% dei lavoratori è a rischio povertà: una persona su sette (la media europea è del 9,4%). Siamo abituati a pensare al binomio full-time/part-time, come se “scegliere” (il più delle volte non è una scelta, come raccontavamo qui  quest’ultima opzione significasse lavorare il 50% rispetto a chi lavora full time. Ci dimentichiamo che esistono contratti che prevedono un impegno del 20% delle ore di un full time, e talvolta addirittura del 10%.

Qualche mese fa su Infodata raccontavamo i dati dell’ultimo rapporto di Inps (2019): 4,3 milioni di rapporti di lavoro su 14 milioni (il 28%) prevedono una salario inferiore ai 9 euro lordi l’ora, al di sotto delle soglie minime di retribuzione oraria. Le cose sono notevolmente peggiorate. Negli ultimi quarant’anni le porzioni più ricche hanno registrato tassi di crescita superiori: chi si colloca nel top 10% e top 5% ha registrato una crescita pari al 99%. Per contro, il 90% meno ricco della distribuzione dei redditi di lavoro ha visto il proprio reddito crescere del 65%.

Un aspetto centrale nelle dinamiche che portano ai working poors è che il mercato del lavoro – dicono gli analisti – si sta polarizzando: da una parte c’è chi riesce a continuare a veleggiare sulla cresta del mercato, inserito in sistemi di formazione continua; dall’altra chi rimarrà indietro, perché poco aggiornato e quindi troppo poco flessibile rispetto a mansioni che si modificano nel tempo. “Dovremo diventare tutti super competenti? Che ne sarà di chi rimane indietro?” si chiede Seghezzi. “La prima risposta è no, la seconda non la sappiamo.”

Il mercato cambia. Uno scenario da studiare in questo senso è il manifatturiero, che pur mantenendo una certa stabilità nel tempo, fa osservare un declino nel numero di occupati negli ultimi quarant’anni. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) stima una grande crescita globale di occupati nel settore dei servizi alla persona e nell’assistenza tra il 2015 e il 2030.

Non dimentichiamo poi la globalizzazione. “Un esempio: una fabbrica in Ohio (come ben mostrato da un recente documentario) aveva acquistato una multinazionale cinese, senza licenziare i lavoratori. Bene, no? A prima vista sì, eppure trattandosi di una riqualificazione aziendale, il salario delle medesime persone è passato dai 29 dollari l’ora a 14 dollari l’ora” racconta Seghezzi.

La questione che si aggancia qui è quella del salario minimo come possibile argine per questo impoverimento indotto dalla crescita delle imprese. “Nella pratica non credo che una legge sul salario minimo riuscirebbe a incidere più di tanto su queste dinamiche, perché molti working poors rientrano in campi professionali non rappresentati da contratti collettivi di lavoro, e difficilmente assimilabili a professioni esistenti. Non fraintendiamo: io penso che il sindacato potrebbe giocare un grande ruolo se portasse avanti i propri interessi originari tutelando i mestieri specifici, ma oggi le persone cambiano molto spesso lavoro ed è oggettivamente difficile seguire il lavoratore lungo tutta la sua vita professionale”.

Importante sarà invece il ruolo delle agenzie interinali, che propongono il cosiddetto “staff leasing”: assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori impegnandosi a collocarli sul mercato. “Anche qui, il concetto è moderno e in linea di principio tutela i lavoratori – conclude Seghezzi – ma sono necessari importanti sforzi di aggiornamento, per non essere schiacciati dalle tante piattaforme web che offrono lavoretti non tutelati e poco retribuiti, ma facili da ottenere”.

 

 

Ultimi commenti
  • Antonio |

    Io penso che ci debba essere una rivoluzione culturale del lavoro. Si va sempre di più verso l’automazione spinta in quasi tutte le tipologie di lavoro, quindi sempre meno “braccia” e quindi meno controllori dei processi. Se si vuole che nel futuro ci sia sostenibilita’ del welfare bisognerebbe pensare ad um modello di riduzione di ore lavorate procapite, “anche con una riduzione del salario “, per permetttere di assumere altri lavoratori riducendo la disoccupazione e con conseguente recupero dell’economia che potrebbe fare recuperare nel medio e lungo termine il salario nel futuro. Perché se si continua così, non so quando, ma temo fra non moltissimi anni, noci saranno più soldi per le pensioni per le generazioni future.

  • Antonio |

    Io penso che ci debba essere una rivoluzione culturale del lavoro. Si va sempre di più verso l’automazione spinta in quasi tutte le tipologie di lavoro, quindi sempre meno “braccia” e quindi meno controllori dei processi. Se si vuole che nel futuro ci sia sostenibilita’ del welfare bisognerebbe pensare ad um modello di riduzione di ore lavorate procapite, “anche con una riduzione del salario “, per permetttere di assumere altri lavoratori riducendo la disoccupazione e con conseguente recupero dell’economia che potrebbe fare recuperare nel medio e lungo termine il salario nel futuro. Perché se si continua così, non so quando, ma temo fra non moltissimi anni, noci saranno più soldi per le pensioni per le generazioni future.

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