Nel 2017 una donna su mille si è rivolta a un centro antiviolenza (43.467 donne cioè 15,5 ogni 10 mila) e due su tre di loro – 29 mila – sono state prese in carico, cioè hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza, con percentuali più alte al nord rispetto a sud e isole. Tra le donne che hanno iniziato tale percorso, il 63,7% ha figli e il 27% è straniera.
Troppo pochi centri, rispetto a quel che dice la legge
In questi giorni, in collaborazione con il Dipartimento per le Pari Opportunità (DPO), il CNR e le Regioni, l’Istat ha condotto la prima indagine sui servizi offerti dai 281 Centri antiviolenza (CAV) italiani rispondenti ai requisiti dell’Intesa Stato -Regioni del 2014. Dall’analisi emerge nettamente che ancora non ci siamo. La legge di ratifica della Convenzione di Istanbul del 2013 individua come obiettivo quello di avere un centro antiviolenza ogni diecimila abitanti, mentre oggi in Italia la proporzione è pari a 0,05 centri per 10 mila residenti. Va precisato che ci sono 106 Centri e servizi antiviolenza che non aderiscono all’Intesa Stato-Regioni.
Nel complesso, al nord le donne si rivolgono ai centri antiviolenza più delle donne del sud: 23 mila nel solo 2017 fra nord ovest e nord est contro le 10 mila di sud e isole. Sono 69 i centri su 253, ben distribuiti da nord a sud, che hanno dichiarato di aver avuto difficoltà ad accogliere donne a causa dell’indisponibilità di posti e regione.
Che servizi offrono?
La buona notizia è che i centri che ci sono offrono tanti servizi importanti, anche se fra tipologie di centri ci sono molte differenze. La maggior parte (97%) è reperibile giorno e notte e tutti i giorni per chiedere aiuto, e il 95% mette a disposizione il numero telefonico 1522 che accoglie le richieste di aiuto e sostegno delle vittime non solo di violenza ma anche di stalking. L’89,7% dei Centri è aperto 5 o più giorni a settimana e l’85,8% è collegato con una casa rifugio.
Intraprendere un percorso di uscita dalla violenza non è facile, per molti motivi. L’art. 4 dell’Intesa del 2014 stabilisce che fra i servizi minimi che i centri antiviolenza devono garantire ci sono anche assistenza psicologica, assistenza legale, supporto ai minori, orientamento al lavoro e all’autonomia abitativa. Ma mentre i primi tre servizi sono offerti dall’organizzazione dei centri, gli ultimi tre dipendono molto anche dai modelli organizzativi del territorio nel quale il centro opera e dagli investimenti delle amministrazioni locali e regionali. Dal sondaggio emerge che il 94% dei centri offre supporto psicologico, il 96% supporto legale, il 79% aiuto nel cercare lavoro per rendersi indipendente dall’uomo, ma solo il 58% offre supporto nel cercare una casa. Il 62% offre servizio di sostegno alla genitorialità il 49% quello di supporto ai figli minori, e il 48% la mediazione linguistica.
Un terzo dei centri del sud non ha una rete territoriale
Il gradiente nord sud esiste, non nel numero di centri, che sono anzi di più nel Meridione, ma nelle risorse su cui ogni centro può contare e quindi nelle loro dimensioni e servizi. Al sud prevalgono i centri piccoli e con poco personale specializzato: un centro su tre non fa parte di nessuna rete territoriale perché non esiste alcuna rete territoriale di cui fare parte. Al centro nord questa percentuale non supera il 14%. Il risultato è che il 40% dei centri nel meridione non fa formazione del personale, contro il 20% del nord. Nel dettaglio non c’è differenza fra centri del nord e del sud sui servizi essenziali come l’adesione al 1522, reperibilità 24 ore su 24, presenza di segreteria telefonica, numero verde e carta servizi. La differenza riguarda la possibilità di supporto concreto nel rendere la donna indipendente, cioè di servizi per i quali servono risorse e investimenti a 360 gradi da parte delle amministrazioni.
Le differenze
Il 34% dei centri censiti sono i cosiddetti “Centri storici”, grandi e che si occupano esclusivamente di violenza da più di tredici anni. Offrono una pluralità di servizi, svolgono attività di prevenzione e informazione presso le scuole e di formazione alle forze dell’ordine, agli avvocati e agli ordini professionali.
Un altro 17% è composto da centri piccoli gestiti da privati, prevalentemente collocati in Campania, che non si occupano esclusivamente di violenza di genere e non hanno accesso a finanziamenti pubblici o privati. Hanno prevalentemente il ruolo di accompagnamento verso i nodi della rete territoriale di appartenenza, spesso coordinata dalla Prefettura alla quale partecipano forze dell’ordine, procure e/o tribunali, servizi sanitari e servizi sociali.
Il 15,8% sono centri medio piccoli, che lavorano a livello interprovinciale (prevalentemente si trovano in Lombardia) e hanno supportato tra le 50 e le 100 donne l’anno.
Il 14% del totale sono centri piccoli nati da poco, che forniscono pochi servizi essenziali, dove la rete non esiste. Sono aperti in media meno di 5 giorni a settimana ma garantiscono una reperibilità telefonica h24. Si tratta di strutture promosse da un Ente pubblico ma il servizio è erogato da un soggetto privato che si sta ancora formando in tema di violenza di genere. Le regioni dove si trovano maggiormente questi Centri sono Puglia e Campania.
Un altro 12% è composto dai centri medi, integrati nella rete, che nel 2017 hanno seguito tra 100 e 200 donne nel percorso di uscita dalla violenza. Fanno parte integrante della rete territoriale antiviolenza, insieme ai servizi sanitari e a quelli comunali.
Infine, il 4% sono piccoli centri che forniscono solo servizi di base, con un bacino di utenza che non va oltre le 40 donne e sono aperti poche ore al giorno. Si trovano prevalentemente in Calabria e offrono per lo più servizi di ascolto e accoglienza, consulenza psicologica e legale, ma non forniscono attività di supporto all’autonomia della donna, né di valutazione del rischio.