Un articolo pubblicato a fine novembre su The Lancet Global Health è lapidario: si continua a registrare un persistente divario di genere nell’editoria accademica. Solo un autore su tre che ha pubblicato sulla rivista dal 2013 al 2018 è donna. Sebbene il numero di autrici sia cresciuto in modo sostanziale dagli anni Sessanta a oggi, e il numero grezzo di pubblicazioni stia diventando sempre più uniforme quanto al genere, gli uomini continuano a dominare le ambite posizioni del primo e dell’ultimo autore (che in un articolo scientifico sono lasciate alla persona che ha dato il maggiore contributo alla ricerca o al coordinatore). Sono di più anche i singoli autori uomini, che le singole autrici. Si tratta di un tema cruciale dal momento che l’avanzamento della carriera accademica è in gran parte guidato dalla ricerca peer-reviewed, dove il numero di pubblicazioni e il grado degli autori rappresentano importanti indicatori di produttività e qualità.
“Le differenze di genere nell’editoria accademica sono influenzate da sistemi iniqui che continuano a svantaggiare le donne e gli autori nel campo della salute globale” concludono gli autori. “Le donne hanno meno probabilità di ottenere finanziamenti.”
Gli autori hanno effettuato un’analisi bibliometrica automatizzata estraendo il nome completo, il grado degli autori e l’affiliazione per paese per gli autori degli articoli pubblicati su The Lancet Global Health (esclusi correzioni ed editoriali) dal suo lancio, 1 giugno 2013, al 1 dicembre 2018.
Complessivamente sono stati considerati 5878 autori, tra cui solo il 2020 donne (il 34,4%). In generale, la percentuale di autori unici donne è aumentata leggermente ogni anno, passando dalle 291 autrici (31,3% del totale) alle 524 del 2018 (36,4% del totale).
Tuttavia le donne sono risultate sottorappresentate sia nella prima che nell’ultima posizione dell’autore, con rispettivamente 288 prime autrici (il 37,5% del totale) e 228 ultime autrici (il 29,7% del totale) di 768 autori. Infine, fra gli articoli ad autore singolo, meno del 30% (73 su 251) sono stati scritti da una donna.
Dopo un’ulteriore disaggregazione di questi dati per posizione geografica, sono emerse maggiori disparità, con il più elevato divario di genere esistente tra chi lavora in paesi a basso reddito, dove solo 160 su 629 autori erano donne (il 25,4%). Fra i paesi a medio reddito la percentuale di donne sale leggermente, passando a 547 donne su 1842 autori (il 29,7%); mentre nei paesi ad alto reddito le donne sono il 37,5% degli autori, 1438 su 3833.
Se consideriamo le autrici (un totale di 2145, numero più elevato perché conteggia due volte la stessa donna se compare in due o più studi) ben 1438 (il 67%) provenivano da paesi ad alto reddito, il 25% da paesi a medio reddito e solo il 7,5% da paesi a basso reddito. Fra gli autori maschi la polarizzazione è meno evidente. Su 4159 autori 2395 (il 57,6%) provenivano da paesi ad alto reddito, 1295 (il 31,1%) da paesi a medio reddito e 469 (l’11,3%) da paesi più poveri.
I ricercatori hanno infine calcolato i tassi di pubblicazione di genere per ogni paese con almeno cinque autori scoprendo alcuni valori anomali rilevanti. Irlanda, Singapore e Norvegia, che appartengono al gruppo dei paesi ad alto reddito, sono tra i 20 paesi con la percentuale più bassa di donne autori, mentre Honduras, Perù, Gambia e Filippine, paesi a medio reddito, sono tra i 20 paesi con la percentuale più alta di autrici.
Le tre autrici e l’autore di questo studio non hanno paura di usare parole forti come “patriarcato” o “sistemi coloniali”. “I sistemi di ricerca influenzati da pregiudizi storici e sistemici vengono istituzionalizzati all’interno di strutture di ricerca e organizzazioni per limitare la progressione della carriera all’interno del mondo accademico. Troviamo evidenze che questi sistemi e processi patriarcali, etnici e coloniali influenzano chi ottiene finanziamenti, chi concettualizza e guida la ricerca e chi alla fine pubblica questi risultati.”