La discriminazione sul lavoro non solo è ingiusta, ma anche dannosa: se un’azienda non assume i talenti migliori per qualche pregiudizio sul loro aspetto, orientamento sessuale, religione o genere avvantaggia i concorrenti. Nella pratica però le cose vanno in maniera diversa, e gli studi che abbiamo a disposizione mostrano che non solo è esistita ed esiste ancora oggi un po’ ovunque, ma anche che ha un effetto profondo sul modo in cui gli individui entrano a far parte delle aziende.
Gli esempi – anche italiani – non mancano. Uno dei più interessanti è contenuto in un paper del 2012 di Eleonora Patacchini (economista alla Cornell University negli Stati Uniti), Giuseppe Ragusa e Yves Zenou, e più avanti in un libro della stessa economista con i colleghi Tito Boeri e Giovanni Peri.
In un esperimento condotto a Milano e Roma, gli studiosi hanno trovato che se un candidato a un posto di lavoro suggeriva preferenze omosessuali nel proprio curriculum – per esempio attraverso periodi di tirocinio in associazioni come “Arcilesbica Roma” oppure “Centro di Iniziativa Gay-Arcigay” – aveva circa il 30% di probabilità in meno di essere richiamato per un colloquio. Questo valeva in effetti soltanto per i candidati maschi omosessuali, mentre non sono risultati svantaggi particolari di questo genere per le donne omosessuali.
Gli autori sono arrivati a questo risultato inviando a potenziali datori di lavoro migliaia di curriculum appositamente progettati, in cui erano presenti certe caratteristiche relative fra l’altro a età, titolo di studio, orientamento sessuale e aspetto fisico, in modo da poter poi stabilire in seguito se qualcuno di questi elementi rendeva più o meno probabile un colloquio successivo.
Come ricordano gli economisti, si tratta di risultati coerenti con diverse altre ricerche condotte in passato, dove “esiste forte evidenza di discriminazione contro i gay durante il processo di assunzione”. In uno studio precedente realizzato in Svezia, per citare un altro caso, i maschi eterosessuali avevano ricevuto il 14% di risposte in più rispetto ai loro colleghi omosessuali.
I risultati del nostro Paese, nello specifico, vanno inseriti in un contesto particolarmente ostile verso questo gruppo di persone. Studi accademici come lo European Social Survey, che provano a capire quanto tolleranti sono gli italiani verso la minoranza di persone omosessuali, hanno trovato che gli italiani sono fra coloro che rispondono in maniera più negativa.
Che i nostri connazionali siano fra i popoli meno tolleranti lo confermano anche altre analisi come quelle condotte dal centro di ricerca americano Pew Research nel 2017, secondo cui un italiano su quattro dice che non accetterebbe un ebreo come membro della propria famiglia: il risultato più elevato fra le nazioni analizzate.
Quella contro gli omosessuali è solo uno dei tanti tipi di discriminazione che esistono, quando – esplicitamente o inconsciamente – le persone vengono trattate in modo diverse soltanto in base ad alcune loro caratteristiche. Ma non è certamente l’unica: nello stesso studio Patacchini e colleghi ricordano che le donne fisicamente attraenti risultano essere favorite nel processo di assunzione, mentre “non risultano differenze significative” per gli uomini. E il tutto a parità di altre caratteristiche come percorso di studi, esperienza e così via, il che ovviamente va a svantaggio delle donne meno attraenti. Come si legge nello studio, d’altra parte, ricerche sperimentali hanno mostrato che non esiste alcun legame particolare fra bellezza fisica e produttività sul lavoro.
Qualcosa di simile vale anche in altri casi come per le persone molto obese o verso specifiche minoranze religiose come i musulmani. Quanto sia vero lo mostra per esempio una ricerca del 2016 condotta da Doris Weichselbaumer dell’università di Linz (Germania), che ha cercato di misurare in che misura pesa la discriminazione verso le donne che indossano il velo.
Il risultato non potrebbe essere più evidente. La stessa candidata fittizia per un posto di lavoro ha ricevuto meno risposte positive con un nome turco al posto di uno tedesco, e ancora molte meno indossando un velo a coprire i propri capelli. Dopo aver inviato poco meno di 1.500 curriculum in risposta a offerte di lavoro, una ipotetica Sandra Bauer (nome tedesco) ha ricevuto risposta il 19% delle volte, Meryem Öztürk (nome dal suono turco, un’ampia minoranza di persone presenti in Germania) il 14% delle volte, mentre per la stessa Meryem Öztürk che però indossava un velo il tasso di risposta è crollato al 4%.
Come sottolinea l’autrice, il risultato vuol dire che quest’ultima candidata “deve inviare quattro volte e mezzo il numero di curriculum dell’altra con nome tedesco e senza velo per ricevere un pari numero di risposte”.
La questione delle discriminazioni sul lavoro è dunque pervasiva, sotto tante forme diverse, e in più in alcuni casi non sta neppure necessariamente migliorando nel tempo. Come hanno notato Lincoln Quillian (Northwestern University, Stati Uniti) e colleghi in un’analisi generale di tutti gli studi in merito che sono riusciti a trovare – relativi agli Stati Uniti –, “un numero di indicatori punta verso una riduzione delle discriminazioni. Alcuni sondaggi mostrano che i bianchi sottoscrivono sempre di più il principio di pari trattamento economico a prescindere dall’etnia di appartenenza”, mentre il numero di ragazzi bianchi o afro-americani che ha completato con successo la scuola superiore è diventato simile, così come si è ridotto il divario fra essi nei test scolastici. Allo stesso tempo “grandi imprese riconoscono sempre di più la diversità come un traguardo, ammodernando le proprie procedure di assunzione per ridurre pratiche a svantaggio delle minoranze”.
Eppure “nonostante chiari segnali di progresso la disuguaglianza su base etnica persiste ed è persino aumentata”, come mostra per esempio è il caso del divario nel tasso di disoccupazione fra bianchi e afro-americani che “è cambiato poco sin dal 1980”.
Cosa dire allora della discriminazione nelle assunzioni? Gli autori hanno messo insieme tutti gli studi condotti dal 1989 al 2015, trovando che in generale a parità di curriculum i candidati bianchi hanno ricevuto il 36% in più di risposte rispetto agli afro-americani; il 24% in più degli ispano-americani. Cercando un trend temporale nei numeri, viene fuori che negli anni il problema per gli afro-americani non pare essere migliorato – anzi forse è persino leggermente peggiorato –, mentre per gli ispano-americani potrebbe esserci stata una certa riduzione nel livello di discriminazione. Tuttavia gli autori sono molto cauti prima di prendere quest’ultima tendenza per certa perché gli studi in merito sono stati relativamente pochi: e anche se così fosse, si tratta della parziale riduzione di un grosso problema che comunque resta.
Come notano pressoché tutti gli studiosi che si sono occupati della questione, si tratta di un fenomeno particolarmente difficile da misurare e quindi tradurre in numeri. I metodi per studiare la discriminazione si sono evoluti e si stanno evolvendo nel tempo, diventando sempre più sofisticati e quindi – si spera – accurati.
Per quanto esiste e probabilmente esisterà sempre un margine di incertezza nel dare cifre su problemi così complicati, c’è ampio accordo sul fatto che la discriminazione sul lavoro sia qualcosa di reale. P
Nota: l’autore ringrazia Marco Albertini, Asher Colombo, Rossella Ghigi e Dario Tuorto per l’aiuto durante il lavoro di ricerca per questo articolo.