L’Ocse ha dedicato una sezione speciale del rapporto alle tasse Revenue Statistics 2019 all’ambiente. Il dato in percentuale varia molto. Nel 2017 si passa dal 2,8% sul totale delle entrate negli Stati Uniti al 12,5% di Slovenia e Turchia. Gli autori dello studio ricordano che “dal 1995 le nazioni dei Paesi più ricchi non hanno spostato una quota superiore delle loro entrate verso tasse relative all’ambiente”.
A partire dal 1995, al contrario, la fetta di risorse fiscali che arrivano da questa fonte è calato: anche in Italia, anche se fra le nazioni sviluppate registriamo uno dei maggiori livelli in questo senso. Nel nostro caso infatti non si è trattato tanto di un calo assoluto. Dal 1995 al 2005 queste genere di entrate sono passate dal valere il 3,6 al 2,9% del Pil, ma negli anni più recenti sono praticamente tornate dov’erano rimaste allo stesso livello. A crescere più rapidamente sono state altre tasse.
Come sottolinea il rapporto, infatti, “in termini monetari la maggior quantità di risorse raccolte, in dollari a parità di potere d’acquisto, sono arrivate dagli Stati Uniti” con circa 121 miliardi di dollari nel 2016, mentre l’Italia è arrivata dopo con un filo meno di 70 miliardi.
La maggior parte di queste entrate arrivano dall’energia e in particolari dai combustibili per veicoli, a seguire le tasse sui trasporti, mentre quelle sull’inquinamento o sulle risorse “giocano un ruolo minore”. Si tratta di una situazione tutto sommato simile a quella di un quarto di secolo fa, si legge ancora, quando le proporzioni fra i diversi tipi di tasse ambientali non erano poi così diverse rispetto a così.
Nello specifico, si tratta di interventi che “nella letteratura economica esistono allo scopo di […] ridurre comportamenti nocivi per l’ambiente” colpendo le esternalità negative generate da alcune attività economiche. Alcuni esempi comprendono l’energia, i trasporti, l’inquinamento, l’uso delle risorse naturali come la pesca o l’estrazione, e così via.