Una recessione può essere descritta come un declino significativo dell’attività economica lungo un ampio periodo di tempo, almeno due trimestri consecutivi di prodotto interno lordo in calo. Alcune fasi di riduzione dell’economia italiana fino agli anni ‘70 possono essere chiamate a malapena chiamate “recessioni”. Durante queste fasi oltre a ridursi il prodotto interno lordo tendono a diminuire redditi, numero di posti di lavoro, produzione industriale e vendite. “Il modello economico generale di una recessione – recita un articolo di VisualCapitalist – è che quando cresce la disoccupazione i consumatori risparmiano più che spendere. Questo crea pressione sulle aziende, che fanno affidamento sul reddito dei consumatori [per vendere i propri prodotti]. Come risultato, declinano profitti e mercati azionari, il che alimenta ancora il ciclo negativo del declino economico. L’opposto invece succede nelle espansioni”.
Il motivo per cui l‘americano medio è più ricco dell’italiano medio è in un certo senso semplice: tutto considerato le espansioni economiche sono state più forti, minori invece le fasi di recessione.
Negli Stati Uniti per esempio la durata media dei periodi di crescita è di un filo più di cinque anni e mezzo. L’Italia d’altro canto non vede un identico periodo di crescita da vent’anni. Quaundo si è espansa l’economia italiana è esploso il debito pubblico. La differenza fra il tenore di vita nelle due nazioni arriva quindi da espansioni più lunghe e intense per gli Stati Uniti, più brevi e tiepide per l’Italia nonché intervallate da numerose fasi di stagnazione quando non da letterali passi indietro. L’economia americana per esempio è stata colpita anch’essa in maniera molto pesante dalla recessione del 2008 – lì la peggiore dai tempi della grande depressione degli anni ‘30 – ma almeno in qualche anno essa ha recuperato sotto diversi aspetti quanto era andato perso.
A dieci anni dall’inizio della crisi, invece, il Pil italiano resta ancora ben al di sotto dei valori pre crisi. “Durante gli ultimi 65 anni di storia”, si legge ancora, “gli Stati Uniti sono stati ufficialmente in recessione per meno del 15% dei mesi”, e in più il loro “impatto economico totale è stato tutto sommato piccolo: l’espansione media del PIL è stata del 24%, la recessione media del 2%”. Nel nostro Paese la fetta del tempo totale passato in periodi di crescita è stata ben minore, e si è trattato perlopiù di rimbalzi.
I motivi per cui un’economia cresce e un’altra vive fasi di stagnazione sono diversi. Da un punto vista generale il Pil certamente aumenta con la popolazione di un Paese, perché più teste tendono a implicare maggiore produzione, ma questo non significa per forza che poi ogni persona stia meglio. Il tenore di vita individuale, d’altra parte, dipende essenzialmente da quattro fattori: quanto le persone sono produttive, se hanno un impiego o meno, quante ore lavorano, e il rapporto fra il loro numero e la popolazione che invece non lavora – che quindi spetta a loro “mantenere”. Tutti i fattori demografici sono particolarmente sfavorevoli per l’Italia, che ha una popolazione già molto anziana, in calo, con sempre meno figli e poche persone che arrivano dall’estero – sono anzi / di più coloro che lasciano il nostro Paese per andare altrove. Tutto questo vuol dire che un numero crescente di persone che non lavorano pesano sempre di più su chi invece ha un posto, come si vede per esempio dal fatto che l’Italia è fra le nazioni al mondo che più spende in pensioni. Ma al di là di questo la teoria economica prevalente è che in ultima analisi la maggior parte della crescita economica si deve all’aumento della produttività del lavoro: al fatto cioè che grazie all’innovazione tecnologica le persone riescono a fare di più e meglio in meno tempo. D’altra parte sono necessarie anche istituzioni che consentono ai progressi della tecnologia di portare i loro vantaggi alla collettività, e che non li ostacolano né estraggono valore da chi lo produce per sprecarlo in maniera improduttiva. Questo approccio suggerisce che i problemi dell’Italia arrivano da lontano, e certamente non sono dovuto a complotti o cause esterne di alcun tipo, ma si tratta di questioni pressoché ignorate da chiunque abbia governato. Anche mettendo da parte gli Stati Uniti e facendo un confronto con nazioni a noi più vicine il quadro non è poi così diverso. Negli ultimi vent’anni infatti l’Italia è cresciuta meno di Spagna, Germania, Francia – nell’ordine di chi ha fatto meglio – nonché dell’intera area euro, a indicare che c’è davvero qualcosa che non va nel modo in cui stiamo facendo funzionare il nostro sistema economico. Né si tratta di una questione astratta: la mancata crescita si ripercuote sui salari che stagnano da tempo. Per esempio sempre secondo l’Ocse a inizio decennio i salari medi erano quasi identici in Italia, Spagna e Francia, mentre oggi quelli dei nostri connazionali sono risultano inferiori persino agli spagnoli, con i francesi ormai superiori di diverse migliaia di euro l’anno.