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cronaca

Coronavirus, cronaca della diffusione (dei dati). Le storia dietro ai numeri (seconda puntata)

Il bollettino quotidiano della Protezione civile è davvero quel rito laico di cui abbiamo bisogno? È diventato quel rito laico che due secoli fa era per Hegel la lettura dei giornali: l’appuntamento quotidiano con il bollettino della Protezione civile che enumera i nuovi contagi, i ricoveri, le guarigioni e purtroppo anche i decessi. E sia chiaro: in tempi come questi è il minimo sindacale, specie in un Paese democratico. Anzi è lodevole, oltre che un’esperienza della quale è auspicabile la pubblica amministrazione voglia fare tesoro anche una volta finita l’emergenza, che questi dati siano pubblicati in formato aperto. Ma, come per la Forza di Star Wars, anche qui c’è un lato oscuro.

Molti l’hanno chiamata infodemia, a sottolineare come questa diffusione di informazione rischi di avere un effetto negativo. L’idea, qui, è che gli effetti negativi siano almeno tre. E riguardino le persone comuni, gli esperti di statistica e i giornalisti. Proviamo a capire perché.

Nel primo caso, che comprende in buona sostanza l’intera popolazione italiana che non operi nella sanità, seguire il bollettino quotidiano della Protezione civile è diventata un’azione simile al misurarsi la febbre quando si ha l’influenza. Ovvero un tentativo di assegnare un numero a un fenomeno per capire in che direzione stia evolvendo. Il guaio è che questo termometro presenta più di un problema.

Intanto, non misura tutta la febbre. Lo ha ammesso lo stesso capo della Protezione civile Angelo Borrelli, intervistato da Repubblica lo scorso 24 marzo, concedendo che i contagi reali sarebbero potuti essere 600mila. Per la cronaca, nella stessa giornata il bollettino parlava di 69mila positivi al tampone. Ora, per quanto da un punto di vista strettamente scientifico non ci fosse nulla di scorretto in questa affermazione (il numero di contagi noti dipende dai tamponi eseguiti e ci sono anche persone positive al virus ma che sono asintomatiche e quindi non sono censite), il risultato è che quella sera un giornalista gli abbia chiesto che senso avesse la conferenza stampa quotidiana per comunicare i numeri del bollettino.

Non è tutto. Nei dati forniti dalla Prociv ci sono molti limiti. Ad esempio, i tamponi. Viene indicato il numero totale di quelli eseguiti, ma non si specifica quanti siano i primi tamponi effettuati su persone che presentano i sintomi, e che quindi potrebbero contribuire ad aumentare il numero dei contagi, e quanti quelli svolti su soggetti malati per verificare che si siano negativizzati. Ovvero che non siano più positivi al Covid-19, riducendo così il totale dei contagi attivi.

Ancora, confrontando i dati forniti dalle regioni con quelli nazionali, la Fondazione Gimbe e YouTrend hanno verificato che non tutte le persone che la Protezione civile comunica come guarite lo sono effettivamente. Guardando al bollettino, infatti, la Prociv parla di dimessi/guariti. Un contenitore che ha un senso dal punto di vista clinico, dato che indica chi non occupa più il letto di un ospedale. Dal punto di vista di quello che i filosofi definiscono il senso comune, però, le due circostanze sono ben diverse. E quindi aggrappare la speranza, perché è questo che avviene, al fatto che il numero dei guariti è superiore a quello dei deceduti assume un significato molto diverso.

Il secondo tema riguarda gli statistici o più in generale chiunque abbia competenze matematiche. Specie nelle prime settimane dell’epidemia, in molti hanno prodotto modelli matematici che proiettavano la curva dei contagi per capire quando si sarebbe piegata, quando si sarebbe raggiunto quel picco che tutti inseguono come se rappresentasse la fine dell’epidemia quando in realtà dice solo che siamo a metà del guado. Il guaio è che questo tipo di modelli funzionano alla perfezione in laboratorio. La realtà aggiunge però dei livelli di complicazione che vanno al di là del calcolo della derivata seconda.

Uno degli elementi tenuti in considerazione quando si calcola il rischio in epidemiologia è la densità abitativa. Facendo accademia: venti casi in un paesino di montagna sono meno preoccupanti di cinque in una grande città. Il motivo è che questi ultimi hanno una maggiore probabilità di incontrare altre persone e, di conseguenza, di infettarle. Ancora, questi modelli sono in grado di tenere in conto fattori esterni e irrazionali? Come, ad esempio, la diffusione della bozza di un decreto che spinge centinaia di persone in preda al panico a prendere l’ultimo treno della notte da Milano verso Sud, potenzialmente favorendo la diffusione del virus?

Infine ci sono i giornali, più in generale i mezzi di comunicazione, che mai come in questa circostanza si sono appassionati ai numeri e alla loro visualizzazione. Il che ancora una volta è positivo, come ricorda Alberto Cairo, docente di datavisualization all’università della Florida, parlando del datasauro. Il problema, semmai, è la logica con cui vengono raccontati questi dati, ovvero la logica della notizia.

Ancora una volta: un’epidemia è un fenomeno complesso, i fattori in gioco sono molteplici e i tempi purtroppo sono molto lunghi. Qui il punto non riguarda meramente la questione, pur centrale, dell’aderenza dei dati alla realtà: è che dover riassumere in un titolo la mole di informazioni racchiusa nei numeri snocciolati ogni giorno dalla Protezione civile, dire cioè se la giornata appena conclusa sia stata positiva o negativa, risulta in un manicheismo francamente poco utile. Per fare un esempio: una crescita che rimane tale, elemento di per sé negativo, ma smette di essere esponenziale, aspetto invece positivo, da quale parte del confine tra bene e male si colloca? O, detto altrimenti, un esercizio di questo tipo informa davvero chi legge?

Al netto di tutte le problematiche legate all’aderenza dei dati all’effettiva realtà dei fatti, infine, l’Organizzazione mondiale della sanità considera un’epidemia conclusa dopo due cicli di incubazione senza contagi. Per i giornali significherebbe titolare per 28 giorni di fila “anche oggi nessun contagio”. Francamente, e qui il riferimento è esclusivamente ai titoli dei giornali, è davvero a questo che vogliamo arrivare?