Anche con l’allentamento delle misure di sicurezza non bisognare abbassare la guardia: il virus che fa ammalare di COVID-19 continua a circolare, e perché si creino nuovi focolai basta poco.
L’esempio più calzante arriva dal Molise, regione che fino a poche settimane fa era riuscita a evitare gli effetti peggiori dell’epidemia, facendo registrare un basso numero sia di casi che di decessi. Eppure, si legge sull’ANSA, sarebbe bastato un assembramento di persone a un funerale svolto il 30 aprile per far balzare di nuovo i contagi riportandoli vicini al massimo raggiunto a inizio di quel mese.
Il numero di nuovi casi rilevati era diminuito moltissimo, con le misure di distanziamento sociale che avevano avuto effetto, ma un singolo episodio ha probabilmente generato decine di nuove infezioni. Nell’ultimo conteggio disponibile – dell’11 maggio – sono risultate positive 72 persone. A fine aprile i nuovi contagi rilevati erano quasi scesi a zero.
Che siano casi rilevati e non effettivi è fondamentale ricordarlo, perché anche in questa fase non vengono effettuati tamponi a tutti coloro che presentano sintomi o con cui siano stati a contatto. Come ha segnalato Cristina Da Rold, la regione Molise diffonde sui social media gli aggiornamenti più dettagliati per cui è possibile partire da lì per avere una fotografia più ravvicinata della situazione.
L’ultimo rapporto, aggiornato al 13 maggio, mostra che Campobasso, il capoluogo regionale, ospita il maggior numero totale di casi individuati fino a questo momento: 183. Focolai significativi sono stati identificati anche in alcuni comuni vicini al mare Adriatico come Termoli, dove ne risultano 43.
Al contempo il numero totale di tamponi effettuati è relativamente alto, almeno rispetto all’estensione del focolaio in regione. Una misura per calcolarlo consiste nel mettere in rapporto il numero di tamponi con quello dei deceduti, chiedendoci appunto quanti test sono stati effettuati per ogni persona che poi è morta. La Lombardia in questo senso è l’esempio peggiore, dove sia per l’elevatissimo numero di casi che per la scarsità di test per ogni deceduto sono stati effettuati finora 35 tamponi. In Molise sono stati invece 457, la quarta regione con il valore più elevato dopo Basilicata, Umbria e Calabria.
Naturalmente è molto più semplice condurre un numero adeguato di test quando l’epidemia viene tenuta sotto controllo a monte da misure di contenimento e distanziamento sociale.
In Molise come altrove, si scopre continuando a scorrere il rapporto, che i contagiati maschi sono stati più delle femmine. Al momento le ragioni di questa differenza non sono ancora chiare. Molti fra i decessi hanno riguardato persone anziane, ma questo non vuol dire che i giovani o chi è sano siano immuni: dove per esempio l’epidemia si è diffusa di più come in Lombardia abbiamo avuto diversi morti anche fra persone giovani e senza neppure precedenti problemi di salute. D’altra parte secondo l’ultimo bollettino dell’istituto superiore di sanità (ISS), l’età mediana dei casi in regione è stata di 56 anni, a intendere che metà dei pazienti totali hanno avuto più di questa età e meno meno. Poiché anche chi sopravvive alla malattia può patire conseguenze a lungo termine e soffrire di disabilità importanti, i decessi o le guarigioni non rappresentano gli unici due esiti possibili da considerare per capire quant’è pericolosa davvero.
Altri indicatori fondamentali da tenere sott’occhio riguardano la pressione sugli ospedali, che in caso di un’epidemia fuori controllo rischiano di non poter far fronte a tutti i pazienti che hanno bisogno di essere curati. Questo vale anche per tutt’altre cause: se i reparti di terapia intensiva sono pieni anche le conseguenze di un incidente stradale possono essere ben più gravi.
Secondo i dati della regione da inizio aprile la situazione è migliorata, e i posti in terapia intensiva occupati da pazienti colpiti dal COVID-19 sono calati da nove a uno. La presenza di pazienti COVID-19 in altri reparti ospedalieri si stava anch’essa riducendo e da 53 persone dell’1 aprile era scesa a sei l’8 maggio scorso. Ma da allora è tornata a crescere fino a 13 persone pochi giorni dopo, per poi calare ancora a nove il 13 maggio.
Questa è la situazione quando le severe misure di contenimento hanno ancora in larga parte il loro impatto. Benché alcune restrizioni siano state allentate dal 4 maggio, infatti, perché si veda un effetto nei dati dei casi servono almeno una o due settimane, e ancora di più per capire se i morti sono tornati a salire. Certo il rischio di nuovi casi aumenta nel momento in cui le persone tornano ad avere contatti personali ravvicinati, anche se resta difficile capire di preciso quanto: molto dipende dalla responsabilità individuale, oltre che naturalmente da quanto le autorità fanno per prevenire ulteriori contagi attraverso test e tracciamento dei contatti.
Diversi epidemiologi suggeriscono comunque grande cautela, in questa fase di riapertura, perché com’è già successo in Molise persino quando ancora erano in vigore le misure più dure, il pericolo di nuovi focolai è concreto. Soprattutto nelle aree in cui finora il contagio si è diffuso meno, e dove quindi vive un maggior numero di persone che possono ancora venire infettate. Secondo uno studio preliminare dell’Imperial College di Londra, per esempio, al 4 maggio era stato colpito dal COVID-19 appena lo 0,6% circa degli abitanti della regione, il che vuol dire che anche solo lì ce ne sono altre centinaia di migliaia che potrebbero ancora ammalarsi. Qualcosa di simile vale per l’intero Centro-Sud, che finora ha evitato in larghissima parte il contagio grazie alle misure di contenimento, ma dove troviamo diverse regioni in cui secondo le migliori stime disponibili la stragrande fetta della popolazione resta a rischio contagio – se dovesse entrare in contatto con il virus in futuro.