Uno dei principali gruppi mondiali di epidemiologi computazionali, guidati dall’italiano Alessandro Vespignani, ha messo a disposizione del pubblico gli ultimi risultati delle proprie ricerche su come si diffonde il virus che causa il COVID-19. Si tratta di un modello che, sotto varie ipotesi, propone delle proiezioni su quante saranno le persone contagiate, ricoverate in ospedale, decedute o guarite, e rappresenta probabilmente lo stato dell’arte su quanto abbiamo capito fino a questo momento della malattia e di come essa si evolve nella popolazione.
Gli scenari disegnati dal modello prevedono quattro ipotesi diverse: intanto che il lockdown venga mantenuto ancora per diverso tempo; che ci sia una modesta riapertura di imprese, scuole e movimento delle persone; una riapertura ancora più incisiva e infine un pieno ritorno alla situazione precedente – pur con il virus ancora in circolo.
Più esattamente, per riapertura “leggera” (chiamata “Lift 1”) s’intende lasciare chiuse le scuole, interazioni calate del 50% sui luoghi di lavoro e del 90% nelle situazioni sociali, con una mobilità ridotta del 50%. L’insieme di queste misure, stimano ricercatori e ricercatrici, ridurrebbe del 60% la trasmissibilità della malattia.
In caso di riapertura “media” (Lift 2) le scuole restano comunque chiuse, mentre le interazioni sul lavoro calano solo del 30% e del 50% quelle sociali, con la mobilità sempre ridotta del 50%. Questo abbasserebbe la trasmissione del virus in minor misura, ovviamente, portandola al 50%.
Questi scenari non vanno presi alla lettera, nel senso che non si tratta di previsioni quanto di possibili evoluzioni dell’epidemia a seconda di cosa avverrà in futuro. I ricercatori non hanno modo di sapere esattamente quanto le persone torneranno a muoversi, le aziende a funzionare e così via, e dunque come cambieranno le interazioni delle persone (ovvero il fattore che in ultima analisi porta a più o meno contagi). Quello che si può fare allora è ipotizzare casi di riapertura sempre più ampia per cercare di capire quali saranno gli effetti sul numero di nuovi contagiati, ospedalizzati e morti.
In tutti i casi, suggerisce il modello, il risultato più plausibile sembra quello di una nuova risalita dei casi, per quanto di entità molto diversa a secondo del livello di riapertura. Nel periodo che va dal 18 maggio all’8 giugno, per esempio, non ci sarebbero praticamente differenze fra il lockdown generale e una modesta riapertura (Lift 1): in entrambi i casi aumenterebbero di circa 1.900 persone. Un’apertura di maggiore entità (Lift 2) aggiungerebbe invece circa altri 1.100 morti nello stesso periodo.
Caso ben più grave sarebbe quello di una riapertura generalizzata,
Quanti posti letto serviranno? Prendendo come arco temporale un mese circa e partendo dal 18 maggio, per esempio, gli scienziati stimano che anche nel caso di allentamento leggero (scenario Lift 1) del lockdown ci sarà un deciso aumento nel numero di posti letto necessari per ospitare tutti i nuovi malati: mantenendo la chiusura sarebbero stati circa 1.800, salito poi grosso modo a 3mila con una modesta riapertura. In caso di un allentamento ancora maggiore delle misure di chiusura l’aumento sarebbero ben più pronunciato e i posti letto richiesti arriverebbero a 11mila.
Nulla di questi scenari arriva al livello di quanto succederebbe in caso di una riapertura totale, dove i posti necessari schizzerebbero a 165mila eccedendo oltre ogni limite le capacità del sistema sanitario italiano di gestire i pazienti. Si tratta di una situazione in linea con quanto stimato in altre sedi dagli epidemiologi.
Al momento non sappiamo esattamente quale delle traiettorie descritte è più vicina alla realtà, perché è ancora passato troppo poco tempo dalla riapertura del 4 maggio. L’epidemia ha una sua inerzia che è difficilissimo deviare – per spostarne la curva finora è stato necessario “spegnere” mezza Italia –, e in più l’apparato sanitario che rileva i nuovi casi è molto lento. Dai primi sintomi, al test (ammesso che si faccia), fino a quando una nuova infezione compare nei dati comunicati dalla protezione civile possono passare anche alcune settimane.
Come si legge nel sito, “nessuno degli scenari sopra menzionati dovrebbe essere considerato come una copia esatta della fase due così come implementata dal governo, quanto piuttosto fornire una valutazione dell’effetto di diversi approcci al rallentamento delle misure di isolamento. L’implementazione attuale del modello si concentra soltanto sull’impatto delle politiche di distanziamento sociale, e per questo non considera il ruolo di altre strategie per ridurre la trasmissione del virus come il tracciamento dei contatti [di chi si è rivelato infetto]”.
Il modello è il risultato della collaborazione del gruppo di Vespignani alla Northeastern University di Boston (Stati Uniti) con il Fred Hutchinson Cancer Research Center, la University of Florida, l’NIH Fogarty Center e due altri centri di eccellenza italiani: la fondazione ISI di Torino e la Fondazione Bruno Kessler di Trento.