“Nessuno perderà il lavoro”, aveva detto a marzo il ministro dell’economia Roberto Gualtieri. Eppure già dai primi dati che cominciano ad arrivare appare chiaro che in termini di occupazione le perdite causate dall’epidemia di Covid-19 saranno profonde.
Nell’ultima nota trimestrale dell’Istat, relativa ai primi tre mesi del 2020, troviamo che il lavoro “subisce una eccezionale diminuzione” come “conseguenza della riduzione delle ore lavorate a seguito del sopraggiungere dell’emergenza sanitaria a partire dall’ultima settimana di febbraio. L’andamento del quadro occupazionale si è sviluppato in una fase di forte flessione dei livelli di attività economica, con il Pil che nell’ultimo trimestre segna una diminuzione congiunturale di -5,3%”.
Rispetto allo stesso periodo del 2019 il calo delle unità di lavoro equivalenti a tempo pieno (ULA) è del 6,9%, e del 6,4% in paragone al quarto trimestre dell’anno scorso. Si tratta di una misura di cui non leggiamo spesso, per cui conviene spendere due parole per capire di cosa si tratta. Cos’è, e perché la stiamo usando proprio ora?
Un indicatore che di solito è sia semplice che utile, se vogliamo misurare lo stato di salute del mercato del lavoro, è il tasso di occupazione. Esso, banalmente, calcola quante persone hanno un impiego sul totale degli adulti. Al momento però ci troviamo in una situazione molto particolare: con le misure di lockdown che hanno chiuso per diverso tempo una parte significativa delle imprese italiane, molte hanno messo i propri lavoratori in cassa integrazione. Secondo i criteri attuali in questo modo essi risultano ancora formalmente occupati, come se nulla fosse successo, per cui nel tasso di occupazione non risultavano.
Ma certamente la riduzione del lavoro è stata enorme, per cui dobbiamo ricorrere ad altre misure per capire quanto. Secondo Istat per esempio ad aprile le ore effettivamente lavorate sono state in media meno persino che in agosto, periodo in cui tradizionalmente una fetta importante del paese è via in vacanza. Qui entrano i gioco le ULA, che misurano appunto le ore effettivamente lavorate dalle persone rispetto a “un numero standard di ore lavorate in media da una posizione a tempo pieno”. Esse in un certo senso danno un’idea di quanto le persone hanno lavorato “a pieno regime”, rispetto al potenziale, e mostrano appunto un grosso calo come conseguenza dell’epidemia.
Un calo così netto non emerge d’altra parte guardando ai soli numeri dell’occupazione, che come anticipato risentono sia del grande ricorso alla cassa integrazione che del divieto di licenziare in vigore ancora per qualche tempo. Rispetto al trimestre precedente, in effetti, “l’occupazione risulta in lieve calo rispetto al trimestre precedente”, pari “al 58,8%, in calo di 0,2 punti”.
Rispetto a fine 2019, poi, “diminuisce l’occupazione dipendente in termini sia di occupati (-0,4%) sia di posizioni lavorative (-0,5%). Tra le posizioni lavorative dei dipendenti del settore privato extra-agricolo, la diminuzione congiunturale è dovuta al calo nell’industria in senso stretto rispetto (-0,3%, -12 mila posizioni) e a quello più marcato nei servizi (-0,6%, -50 mila posizioni). Nel primo trimestre 2020, nei dati del ministero del lavoro e delle politiche sociali tratti dalle comunicazioni obbligatorie rielaborate, le attivazioni sono state 2 milioni 554 mila e le cessazioni 2 milioni 492 mila”. Queste ultime corrispondono a nuovi contratti, e in tal senso le attivazioni non misurano le “teste” – a intendere le persone occupate – quanto invece i singoli rapporti di lavoro. Per esempio nel caso di contratti a tempo determinato di breve durata è possibile avere più attivazioni in un solo anno per la stessa persona.
Si contrae anche il lavoro indipendente – a intendere gli autonomi – che diminuisce di 28mila occupati rispetto a fine 2019 e di 49mila rispetto al primo trimestre 2019. Un dato che potrebbe sorprendere, a prima vista, riguarda il calo dei disoccupati (-175mila persone). Si tratta in realtà di persone che hanno smesso proprio di cercare lavoro, come si deduce dal fatto che non solo sono diminuiti gli occupati ma soprattutto crescono tantissimo gli inattivi, ovvero coloro che né hanno un posto né lo cercano (+241mila).
Il progressivo peggioramento dello stato di salute del mercato del lavoro emerge ancora meglio guardando ad attivazioni e cessazioni dei rapporti di lavoro. Il rapporto ha analizzato anche il contributo giornaliero al saldo annuale nei primi tre mesi del 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, trovando un’erosione graduale a cominciare da fine febbraio che diventa sempre più netta almeno fino al termine di marzo.
“A pesare sulla riduzione”, si legge, “ha concorso in misura maggiore la contrazione delle nuove attivazioni cui si somma, con il perdurare dell’emergenza sanitaria, la mancata proroga o rinnovo dei contratti a tempo determinato in scadenza nel periodo. Se infatti fino alla seconda decade di febbraio l’andamento delle posizioni lavorative a tempo indeterminato e determinato era analogo, a partire dai primi di marzo la forbice tra le due tipologie contrattuali si amplia progressivamente a sfavore delle seconde. Nel complesso, al 31 marzo 2020 rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente, si riscontra una diminuzione di 239 mila attivazioni di rapporto di lavoro dipendente (-44 mila a tempo indeterminato e -195 mila a termine)”.
A rimetterci sono stati soprattutto i lavoratori a termine, molti dei quali o non hanno visto arrivare il rinnovo del contratto o non ne hanno ottenuto neppure il primo. Questo problema si inserisce in un contesto molto eterogeneo, che vede i contratti stessi durare in maniera ben diversa a seconda del settore. Al primo trimestre 2020 i dati coperti dalle comunicazioni obbligatorie (che rappresentano una parte importante anche se non completa al 100% del lavoro italiano) ci dicono che grosso modo “un terzo delle posizioni lavorative attivate prevedono una durata fino a 30 giorni (l’11,2% un solo giorno), il 26,6% da due a sei mesi e il 3,7% superiore all’anno”.
Per dare un’idea, ci sono campi come l’informazione e comunicazione – che comprendono le attività cinematografiche o editoriali – in cui quasi il 60% delle assunzioni dura per un solo giorno, e un altro 20% fino a una settimana. Naturalmente si tratta di estremi, ma d’altra parte anche negli alberghi e ristorazione quasi un terzo dei rapporti dura un solo giorno e un altro 14% fino a una settimana. Il contrario succede nell’industria, nel commercio, nei trasporti o nei servizi di mercato, dove invece troviamo un maggior numero di contratti sempre a termine ma di durata da due a sei mesi.
I diversi settori sono stati interessati dalle perdite di occupazione con intensità variabile, a cominciare dai servizi che risultano colpiti in misura maggiore. Hanno perso infatti 169mila posizioni lavorative, contro le -63mila dell’industria. Il singolo comparto con le maggiori perdite è quello di alloggio e ristorazione, dove al 31 marzo risultano -99mila posizioni, “su cui hanno pesato in modo particolare le mancate attivazioni (e in particolare quelle relative al lavoro a tempo determinato), così come anche nell’ambito delle costruzioni (-21 mila). Nelle attività professionali afferenti al noleggio e servizi alle imprese la contrazione delle posizioni (-20 mila) è invece da imputare al numero crescente delle cessazioni, particolarmente elevate in concomitanza dei provvedimenti normativi. Nel settore sanitario le posizioni lavorative si sono mantenute su valori positivi e costanti soprattutto grazie alle nuove attivazioni che hanno continuato, nel periodo, a compensare le cessazioni. Segno decisamente positivo per i servizi alle famiglie che, soprattutto a ridosso dell’adozione del DPCM del 9 marzo (che ha disposto anche la sospensione delle attività scolastiche e formative) hanno registrato fino al 31 marzo una crescita continua e progressiva”.
Anche nell’agricoltura il saldo è lievemente positivo, con 10mila posizioni in più rispetto allo stesso periodo del 2019.
Se invece consideriamo le caratteristiche individuali delle persone interessate, troviamo le perdite maggiori per gli under 35, che già in precedenza avevano un impiego assai di rado rispetto ai nostri partner europei. Al primo trimestre il loro tasso di occupazione è sceso al 41,3% e in calo dello 0,4%, mentre una riduzione di pari entità (-0,2%) si è verificata sia per gli uomini che per le donne. Va però tenuto a mente che queste ultime hanno un impiego molto meno di frequente – un filo meno del 50% del totale contro il 68% degli uomini, per cui i livelli di partenza sono ben differenti.
Dal punto di vista dei diversi settori, la variazione delle posizioni lavorative da fine 2019 a inizio 2020 è peggiorata in particolare nei servizi di trasporto e magazzinaggio e in alcune attività immobiliari, scientifiche o professionali (-1,1%), nonché nell’alloggio e ristorazione (-1%). Tengono i servizi di informazione e comunicazione, con soltanto una leggerissima flessione (-0,1%). Nell’industria a calare è la manifattura vera e propria, che segna un -0,3%, con altri settori minori come la fornitura di energia elettrica o di acqua che invece presentano variazioni più piccole, nell’ordine dello 0,1% in un verso o nell’altro.
“Al netto della stagionalità”, ricorda ancora il rapporto, “nel primo trimestre 2020 il numero di posizioni si attesta a 12 milioni 909 mila registrando il primo calo dopo una crescita ininterrotta durata per cinque anni (dal primo trimestre 2015); il calo congiunturale è dello 0,3% nell’industria e dello 0,6% nei servizi. Prosegue la riduzione su base annua (-0,3%) delle posizioni lavorative in somministrazione a fronte di una lieve crescita in termini congiunturali, registrando una variazione positiva dello 0,1%”.