Ci si preoccupa, giustamente, di come i nostri litorali riusciranno a far fronte alle sfide imposte dal COVID-19, fra distanziamento fisico e controlli. Ma non è che la montagna, nonostante la minore densità, rischi di meno. Gli spazi nelle strutture sono spesso esigui e promiscui, e in molte zone è alto il numero di turisti “necessario” per non andare in perdita. E soprattutto, le logiche del turismo montano variano molto da regione a regione: questa pandemia non si abbatterà ovunque allo stesso modo, e i risultati dipenderanno anche dagli investimenti che la politica ha o non ha fatto sull’imprenditoria alpina.
Se da una parte le aree montane sono state meno vessate dal virus, e a oggi la prevalenza della malattia sia inferiore rispetto a tanti centri urbani, il problema sarà duplice: assicurare la sanificazione di realtà che per loro natura non hanno una struttura adeguata per distanziare l’ospite, e al tempo stesso fare in modo di proteggere queste zone da un contagio che viene da fuori. “Al momento so che alcune regioni stanno discutendo sugli eventuali strumenti di controllo del turista, ma non è facile, perché in montagna può essere semplice controllare il turista (colui che prenota, che soggiorna per più giorni), ma non l’escursionista giornaliero, che rappresenta la maggior parte del turismo estivo” spiega Diego Cason, sociologo, che da trent’anni si occupa di sociologia del turismo e della pianificazione territoriale dell’arco alpino.
Il tema dei rifugi
I rifugi in particolare sono un tema importante, dal momento che per loro natura, sono prevalentemente strutturati in camerate, con servizi in comune, e con aree ristoro raccolte. “Proprio in queste settimane ho partecipato a un tavolo di lavoro sulla gestione dei rifugi alpini, e non sappiamo ancora quali soluzioni potremmo mettere in campo, nessuno ha esperienza di eventi del genere” spiega Cason. Non basta dire ai clienti di prenotare, perché in montagna succede spesso l’imprevisto, e cioè che l’escursionista si ritrovi a calcolare male i tempi, o si trovi ad affrontare un improvviso problema meteorologico, e che quindi si rivolga al rifugio più vicino, che non può certo lasciarlo all’addiaccio.
Tre fattori incidono sul turismo montano
“Ci sono tre fattori che incidono come gradienti sull’introito del turismo in montagna: la stagione invernale, la presenza di strutture alberghiere e il turismo straniero, che spende tendenzialmente di più” continua Cason.
In montagna è la stagione invernale a essere la più trainante economicamente. “Fatto 100 il valore aggiunto portato dal turista invernale, quello estivo porta un valore aggiunto mediamente della metà. Se analizziamo il tipo di offerta ricettiva, gli alberghi generano un ritorno economico triplo rispetto ai b&b e di cinque volte quello dei campeggi, perché offrono servizi aggiuntivi che quindi costano di più e fanno salire il valore aggiunto del turista per il territorio. Non stiamo dicendo che il grande albergo è meglio del piccolo. Si tratta di ragionare in termini di valore aggiunto di ogni turista, per avere sempre meno necessità di dover puntare sulla quantità, perché il turismo montano deve considerare la sua sostenibilità nel territorio.”
Il punto centrale è che anche il turismo alpino dovrà scegliere se puntare sull’aumento del flusso a parità di offerta, e di prezzo, o se investire nella costruzione di servizi più strutturati, quindi più costosi, che portino in montagna flussi meno cospicui ma generanti più valore aggiunto per il territorio.
E magari nel frattempo investire per ripopolare, finalmente, la montagna di persone che ci vogliono vivere stabilmente, lavorare, creare imprese non turistiche.
Le differenze regionali
La situazione di partenza è variegata, anzitutto numericamente. La provincia autonoma di Bolzano per esempio, ha un numero di arrivi alberghieri molto elevato, sia in numero assoluto che in proporzione agli arrivi in strutture complementari. Qui il turismo è concentrato intorno a strutture più grandi con più servizi e più capacità di distanziare l’ospite. Questo, nonostante Bolzano accentri la sua presenza in alcune aree, e che al tempo stesso sono state capaci nel tempo di produrre un valore aggiunto maggiore, puntando non sul semplice aumento del numero di arrivi, ma nella qualità del servizio, che permette di far salire i prezzi. In altre aree invece si è preferito lasciare più spazio al turismo “complementare”, diffuso, con strutture ricettive con meno servizi, che puntano sull’escursionista veloce, sull’ospitalità promiscua, e che quindi avrà maggiori difficoltà a gestire queste nuove regole e finirà per perderci di più” spiega Cason. “In Sud Tirolo si contano circa 4000 alberghi, mentre al di là dei monti, in provincia di Belluno, 400”.
Ci sono province come Verbano-Cusio-Ossola, Aosta e Bolzano, dove la maggior parte del turismo è straniero, mentre in altre zone la situazione è ribaltata. Anche il numero di arrivi varia notevolmente: si passa dai 14 arrivi per abitante a Bolzano, al 10 della Valle d’Aosta, ai 5 di Belluno, ai 4,8 di Sondrio.
Attenzione: “Va precisato che la raccolta dei dati sul turismo montano e la loro diffusione non è esemplare – spiega Cason. Solo la Regione Veneto fornisce i dati sulla montagna sul totale dell’anno, e in generale non è chiaro quali comuni vengano considerati come montani in ogni provincia definita alpina.” Noi qui abbiamo scelto di presentare i dati delle province con delle aree alpine (escludendo Imperia, Verona e Udine per la forte distorsione data dai litorali e dal Lago). In STAMPATELLO invece sono evidenziate le province per la maggior parte alpine.
Il problema è come avevamo investito prima
È evidente che l’impatto economico del COVID-19 dipenderà anche da quanto le diverse regioni hanno investito nella pianificazione del turismo montano, e negli incentivi alla residenza nelle “terre alte” nei decenni passati.
Le aree meno strutturate in termini di servizi avranno meno possibilità di generare introiti in un contesto di difficoltà come questo, perché dovranno necessariamente ridurre gli arrivi per garantire il distanziamento”. Non si tratta di trasformare il b&b in un albergo o della capacità imprenditoriale del singolo. Se si eredita una baita dal nonno e non si è milionari, senza un supporto istituzionale, senza agevolazioni per gli investimenti, la baita del nonno potrà diventare al massimo un piccolo b&b, e l’investimento del turismo montano sarà necessariamente orientato sull’aumentare i numeri di chi arriva, con i problemi che sappiamo.
“Siamo sempre al solito discorso, trito e ritrito – precisa Cason – la differenza nella gestione della montagna dipende da dove si colloca la cabina di regia regionale. Dove le aree montane sono governate dalla pianura, la montagna è vista come qualcosa di marginale, da usare, non su cui investire per generare valore aggiunto. La pandemia ci ha sbattuto in faccia la necessità di ripensare alla politica delle terre alte, prima ancora che alla politica degli investimenti”.