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tecnologia

Bene gli open data, ma occorre imparare ad utilizzarli

Oggi sono diventati una tra le tante notizie del giorno, ma nelle settimane del lockdown i dati forniti dalla Protezione civile erano il principale, se non unico, punto di interesse da parte dell’opinione pubblica. Numeri relativi ai contagi, ai ricoveri, alle guarigioni e, purtroppo, anche ai decessi legati alla diffusione del virus Sars-CoV-2. Dati impiegati anche da Infodata, ad esempio, per costruire la mappa che racconta il percorso di uscita dalla pandemia:

Numeri che è stato possibile utilizzare grazie al fatto che la Protezione civile ha scelto di renderli disponibili in formato open data. Espressione, quest’ultima, che significa sostanzialmente due cose. La prima è che queste informazioni sono accessibili a tutti. Nello specifico, è possibile scaricarli da GitHub. La scelta di questa piattaforma, nata per consentire agli sviluppatori di codice di condividere il proprio lavoro, permette anche di aprire delle issues, ovvero di segnalare alla Protezione civile delle problematiche o di formulare suggerimenti rispetto alla modalità di pubblicazione dei dati. Circostanza che, durante la pandemia, si è verificata.

Il secondo aspetto riguarda il fatto che questi dati siano machine readable, ovvero che possano essere letti da software utilizzati per analizzare i dati e visualizzarli. Un tema tutt’altro che banale: lo ha ricordato l’associazione onData coniando lo slogan per cui «le dashboard non devono essere i nuovi pdf». Ovvero una modalità di comunicazione dei dati che però ne impedisce il riutilizzo. Una raccomandazione peraltro presente anche nelle linee guida della task force creata per la gestione dei dati sulla pandemia, dove si raccomanda di accompagnare le visualizzazioni di dati elaborate dalle pubbliche amministrazioni, appunto le dashboard, con i dati grezzi in formato open.

La Protezione civile ha insomma fissato uno standard. Ovvero ha comunicato dati in formato aperto, forniti su scala nazionale e aggiornati quotidianamente. Uno standard, lo ha ricordato anche Vincenzo Patruno su Agenda Digitale, che sarebbe opportuno si diffondesse a tutte le pubbliche amministrazioni italiane. Questo non soltanto per una questione di trasparenza e di accountability della politica, ma anche per ragioni di natura economica. Secondo il rapporto 2020 sul Valore economico dei dati aperti, realizzato dallo European data portal, il mercato dei dati aperti in Europa vale 184 miliardi. E, da qui al 2025, raggiungerà un valore compreso tra i 199,51 ed i 334,21 miliardi di euro.

Ma proprio perché si generi questo valore e si possano utilizzare i dati come strumento di trasparenza, serve quella che in inglese si chiama data literacy. Ovvero un minimo di competenze di base nel leggere questi numeri diffuse nella popolazione. Il che non significa che l’Italia debba diventare un Paese di statistici. Sarebbe sufficiente avere gli strumenti per capire che non ha senso confrontare il numero di positivi al Covid-19 nei diversi Paesi del mondo senza rapportare il dato al numero di abitanti. O che se ieri si sono registrati 5 decessi dovuti al nuovo coronavirus e oggi 20, non ha alcun senso parlare di tendenza in aumento. E sotto questo profilo, stando anche a quanto si è letto sui giornali in queste settimane, c’è ancora molto lavoro da fare.