Stiamo vivendo un momento unico della nostra storia recente, in cui la scienza di fatto ci implora di avere fiducia nell’efficacia di una prassi – indossare la mascherina, lavarsi le mani, usare il distanziamento fisico – nonostante non sia ancora in grado di fornire conoscenze scientifiche solide sui pilastri di questa pandemia.
Epistemologicamente è un contrappunto interessante, che amplia non di poco i contorni del concetto di prevenzione. Continua a passare l’idea che siccome non possediamo ancora conoscenze scientifiche certe, allora non c’è motivo di mettere la mascherina o di seguire il 03distanziamento fisico; mentre la ratio è esattamente contraria: proprio perché non sappiamo ancora chi, come e quando si infetterà e si ammalerà gravemente, la cosa più furba che possiamo fare è seguire pedissequamente le misure preventive che hanno un fondamento.
È troppo presto per la scienza per avere una risposta definitiva a diverse domande cruciali e quindi è troppo presto per noi per scegliere di agire sulla base di queste: come andrà in autunno? È un pericolo se i bambini tornano a scuola? Qual è la natura dell’immunità fornita da un futuro vaccino, e quanto durerà? Qual è il reale rischio di ammalarsi gravemente di COVID-19 una volta contagiati? Qual è la natura di questo virus?
Forse – forse – noi giornalisti dovremmo cominciare a gridare di meno quando un singolo esperto, o un team di esperti, avanza ipotesi sulla fine della pandemia, o su come andranno le cose in autunno. Non pare affatto sensato in questa mezza estate definirsi ottimisti o pessimisti, perché si rischia di influenzare le scelte pratiche che al momento sono le uniche cose di buon senso che ognuno di noi può fare. Due cose sappiamo con buona certezza: che usare la mascherina chirurgica nel modo giusto protegge dal contagio e che soluzioni alcoliche per l’igiene personale e domestica uccidono il virus.
Si tratta di un tema importante nella comunicazione della scienza, che distingue gli scienziati dai comunicatori e giornalisti. I primi hanno come obiettivo studiare e capire come stanno andando le cose, prendendo anche posizione se serve all’interno della propria comunità; i secondi hanno il compito (fra gli altri) di rispondere ai dubbi delle persone, aiutandole a capire come comportarsi. Quando uno scienziato comunica direttamente con il pubblico deve cambiare registro, e pensare sempre a quale utilità pratica sta offrendo alla comunità estesa con la propria presa di posizione. Anche perché – come avevamo ben spiegato in un nostro articolo di fine aprile – Non tutti gli esperti sono uguali, e questo caos informativo lo crea la politica, ma lo creiamo soprattutto noi giornalisti quando scegliamo chi intervistare e che domande porre.
Un articolo pubblicato a fine giugno su Nature dal titolo “Six months of coronavirus: the mysteries scientists are still racing to solve” evidenzia le domande ancora senza risposta, e che quindi è troppo presto porre come titoloni sui giornali o da porre a ogni piè sospinto al singolo scienziato.
Chi sono le persone più a rischio?
Uno degli aspetti più sorprendenti di COVID-19 sono le nette differenze nelle esperienze della malattia. Perché le persone rispondono in modo così diverso all’infezione? Non lo abbiamo ancora capito, anche perché per ovvie ragioni le autopsie su malati di COVID-19 erano vietate.
Alcune persone non sviluppano mai sintomi, mentre altre, apparentemente sane, hanno una polmonite grave o addirittura fatale. Non sappiamo quali danni provoca il virus nel breve e nel lungo termine, non solo nei polmoni ma anche nel cervello. Si leggono titoli ogni giorno, altisonanti, su questo o quell’effetto, ma per avere dati scientifici certi serve molto più tempo, e servono molti campioni, possibilmente a seconda del profilo genetico del virus.
Come andranno le cose in autunno?
Questa domanda ha due aspetti: quello epidemiologico, cioè quanto ci contageremo gli uni gli altri, e quello genetico, se il virus ha sviluppato mutazioni preoccupanti. Riguardo al primo dei due quesiti, i dati al momento disponibili (probabilmente sottostimati a seconda di ciò che riusciamo a intercettare) ci dicono che l’epidemia è in corso. Negli ultimi due mesi esatti, dal 27 maggio al 26 luglio, abbiamo avuto in Italia ogni giorno una media di 250 nuovi casi, per un totale di 15.616 nuovi casi. Nel resto del mondo l’emergenza è ancora in una fase molto peggiore.
Sappiamo che tutti i virus mutano mano a mano che infettano le persone, e SARS-CoV-2 non fa eccezione, ma non sappiamo perché alcune linee sono più virulente o contagiose di altre.
“La maggior parte delle mutazioni non avrà alcun impatto sull’epidemia – scrivono gli autori su Nature – e per questo la sfida è individuare quelle preoccupanti, cosa non banale”. Le versioni del coronavirus identificate all’inizio di focolai in hotspot come la Lombardia in Italia o a Madrid, ad esempio, potrebbero sembrare più letali di quelle trovate in fasi successive o in altre località. “Il problema è che tali associazioni sono probabilmente false” afferma William Hanage, un epidemiologo dell’Università di Harvard. “Le autorità sanitarie hanno maggiori probabilità di identificare casi gravi nelle prime fasi incontrollate di un focolaio. L’ampia diffusione di alcune mutazioni potrebbe anche essere dovuta agli “effetti del fondatore”.
Qual è la natura dell’immunità e quanto dura?
Per quanto sia pericoloso, nella maggior parte dei casi entrare in contatto con una malattia infettiva, se non uccide rende immuni, e quindi esenti dal diffondere il contagio. È il principio di quella che si chiama immunità di gregge. Gli immunologi stanno lavorando febbrilmente per determinare quale potrebbe essere l’immunità “garantita” da SARS-CoV-2 e quanto tempo potrebbe durare, ma ancora di risposte non ce ne sono. Gran parte dello sforzo si è concentrato sugli “anticorpi neutralizzanti”, che si legano alle proteine virali e prevengono direttamente l’infezione. Alcuni studi hanno scoperto che i livelli di anticorpi neutralizzanti contro SARS-CoV-2 rimangono elevati per alcune settimane dopo l’infezione, ma poi in genere iniziano a calare.
Tuttavia, questi anticorpi potrebbero persistere a livelli elevati più a lungo nelle persone che hanno avuto infezioni particolarmente gravi. “Più virus, più anticorpi maggiore durata”, afferma l’immunologo George Kassiotis del Francis Crick Institute di Londra. “Modelli simili sono stati osservati con altre infezioni virali, tra cui la SARS (sindrome respiratoria acuta grave). La maggior parte delle persone che hanno avuto la SARS hanno perso i loro anticorpi neutralizzanti dopo i primi anni. Ma quelli che lo avevano davvero gravemente avevano ancora anticorpi quando sono stati testati nuovamente 12 anni dopo”.
Quando avremo finalmente il vaccino?
È questo “finalmente” il nocciolo del problema. Un vaccino efficace potrebbe essere l’unica via d’uscita dalla pandemia, ma al momento non siamo certi che un vaccino così come sappiamo produrlo serva davvero a bloccare la diffusione del virus. Attualmente ci sono circa 200 in via di sviluppo in tutto il mondo, con circa 20 studi clinici, cioè sull’uomo. I primi studi di efficacia su larga scala per scoprire se il lavoro con i vaccini dovrebbero iniziare nei prossimi mesi e confronteranno i tassi di infezione da COVID-19 tra le persone che assumono un vaccino e quelle che ricevono un placebo.
Al momento studi condotti sui macachi suggeriscono che i vaccini potrebbero fare un buon lavoro nel prevenire l’infezione polmonare e la conseguente polmonite, ma non nel bloccare l’infezione in altre parti del corpo, come il naso. Le scimmie che hanno ricevuto un vaccino sviluppato dall’Università di Oxford, nel Regno Unito, e che sono state poi esposte al virus avevano livelli di materiale genetico virale nei loro nasi paragonabili a livelli negli animali non vaccinati. Risultati come questo aumentano la possibilità di un vaccino COVID-19 che previene le malattie gravi, ma non la diffusione del virus.
I dati sull’uomo, sebbene scarsi, suggeriscono che i vaccini COVID-19 spingono i nostri corpi a produrre potenti anticorpi neutralizzanti che possono bloccare il virus dall’infezione delle cellule. Ciò che non è ancora chiaro è se i livelli di questi anticorpi siano abbastanza alti da bloccare nuove infezioni o per quanto tempo queste molecole persistono nel corpo. Insomma: non è ancora detto che il vaccino sarà la panacea di tutti i mali.